martedì 5 dicembre 2017

Paul Hoover

Saigon, Illinois è compresso tra due eventi che sono rimasti scolpiti della memoria, in virtù del ruolo via via predominante della televisione. Il clamore dell’offensiva del Tet, con il drammatico assalto all’ambasciata americana, offre il background iniziale, e l’arrivo sulla luna dell’Apollo 11, nel luglio del 1969, non delimitano soltanto l’arco temporale in cui si svolge il romanzo di Paul Hoover, ma sottolineano anche la drastica metamorfosi di un intero immaginario che il protagonista di Saigon, Illinois, Jim Holder spiega in modo molto semplice: “Eravamo abituati a vedere Sid Caesar fare delle smorfie a Imogene Coca o Charley Weaver leggere una lettera del pubblico a casa, e ora non si poteva nemmeno guardare un notiziario senza rimanere pietrificati sul divano”. Jim Holder fa riferimento alla scena di un’esecuzione sommaria nelle strade di Saigon e riporta alla memoria la storica fotografia di Eddie Adams (vinse il premio Pulitzer per quel reportage) che ritraeva il comandante della polizia sudvietnamita, il generale Nguyen Van Ngoc Loan, sparare a sangue freddo a un sospetto vietcong. Dopo la guerra, Nguyen Van Ngoc Loan andò a gestire una pizzeria nei sobborghi di Washington. La bizzarra parabola sembra scritta da Paul Hoover che ha una sensibilità tutta sua nel raccontare la scelta di Jim Holder che, nell’estate del 1968, decide di negarsi alla leva, scegliendo il servizio alternativo in un ospedale. Va notato che il punto di vista disincantato di Jim Holder non riguarda soltanto l’aspetto pacifista, ma anche le posizioni anticonformiste che emersero nel corso di quegli anni. Nella sua prospettiva,“i veri angeli della desolazione non erano motociclisti fuorilegge e beatnik suburbani; erano comuni impiegati di drogheria, meccanici, presidenti di banche e casalinghe che credevano nell’inevitabilità, quindi nella bellezza della prima alba nucleare. Erano le fenici che si alzavano dalle ceneri dell’America delle piccole città e lo sapevano: era questo a conferire loro una tale spaventosa fiducia nei propri odi quotidiani”. L’ospedale dove andrà a lavorare Jim Holder, il Metropolitan di Chicago, ne è la perfetta metafora istituzionale: la sua burocrazia riflette la società della cosiddetta maggioranza silenziosa che è andata in guerra, convinta della sua necessità. Il tran tran è farraginoso: c’è sempre un supervisore che dispone e controlla, ci sono ruoli, mansioni e organigrammi da aspettare o sotterfugi e regole non scritte da assecondare nonostante la costante emergenza in corsia. L’ospedale diventa il centro della vita di Jim Holder, e non solo per le mansioni che è chiamato a svolgere: è anche una sorta di labirinto emotivo dove incontra amore, pietà, perfidia e (va da sé) dolore e morte. L’esperienza è drammatica, anche se Paul Hoover ha un modo del tutto singolare di sottolineare con l’ironia (e il sarcasmo, quando è necessario) i momenti più tragici e gli episodi salienti che incidono sulla trama e sull’andamento della storia. Jim Holder rimane incastrato quando, nel corso di una manifestazione pacifista, si prende la sua razione di manganellate e si ritrova ospite dello stesso ospedale dove deve finire il dovere patriottico. A quel punto le sue opinioni, già tollerate a fatica dall’amministrazione sanitaria, diventano ingombranti, e viene licenziato. L’ufficio di leva, e da lì il Vietnam, lo aspettano. Ormai alla fine, Jim Holder esprime senza censure la sua disillusione, anche nei confronti di un evento tutto sommato innocuo e neutro come l’allunaggio, che a dispetto dell’entusiasmo generale, vede così: “Armstrong probabilmente aveva anche lui delle battute e cose da fare scritte da qualche pubblicitario della NASA, anche se la sua avventura era reale. Un passo avanti per l’umanità, un cazzo”. Paul Hoover rende bene il clima confuso dell’America a cavallo tra il 1968 e il 1969, della frattura verticale tra le generazioni e dell’ambigua conduzione dei conflitti e offre un punto di vista inedito rispetto all’enorme massa bibliografica legata alla guerra del Vietnam. A Jim Holder non resta che l’alternativa on the road che, nello scorcio finale, appare come una conseguenza logica, diretta e spontanea, quasi ovvia, ma solo perché la costruzione di Paul Hoover è molto fedele e puntuale. Nonostante tutto, anche la fuga verso la California è ammantata dallo stesso velo di amarezza che pervade l’intero Saigon, Illinois. Inevitabile perché riporta su un piano emotivo il fallimento di una nazione intera, quella che Allen Ginsberg chiamava “la caduta dell’America”. A quel punto, lo status di Jim Holder passa da parziale obiettore di coscienza (e furono 3250 gli obiettori finirono in carcere) a renitente, insieme ad altri 570.000 giovani americani. Di questi molti fuggirono in Canada o in Europa, 209.517 vennero processati e solo nel 1974 il presidente Gerald Ford promulgò gli atti per una prima clemenza, poi completata dall’amnistia varata da Jimmy Carter nel 1977. Toccante e utile, perché era una storia che ancora doveva essere raccontata.

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