lunedì 14 marzo 2011

Sam Shepard

La solitudine, l’alienazione, l’emarginazione e ogni altra odissea umana ovvero tutti i temi preferiti da Sam Shepard trovano in Motel Chronicles una sorta di elevazione al massimo esponente dove la scrittura è qualcosa che va oltre le parole, perché “dicono che le parole sono incomprensibili”. Allora è come guardare da una finestra, in una notte eterna che “ci tiene sotto luce”, per vedere qualcuno in bilico sul confine della propria. L’immagine è scavata nelle ombre, nitida e precisa: “Lavò la sua camicia rossa nel lavandino. Stese sul pavimento un asciugamano del motel. Stese la camicia sopra l’asciugamano. Mentre lisciava le maniche e le incrociava sul ventre della camicia pensò alla propria morte”. E’ facile pensare che quella stanza pagata pochi dollari sia nella stessa contea di Paris, Texas: “dentro” e “fuori”, i due estremi significativi della scrittura di Sam Shepard si svolgono per immagini perché “ogni fotografia è un punto di vista” e guardare le parole, piuttosto che leggere, aiuta ad avere molti pensieri che si possono “chiamare alleati”. La scrittura di Sam Shepard è, soprattutto a questo stadio, quello di Motel Chronicles classica e indefinita, indefinita proprio perché classica, classica proprio perché indefinita. La costruzione delle frasi è fatta un passo dopo l’altro, una parola dopo l’altra, frammenti e schizzi che vanno ad associarsi senza uno schema preciso, almeno in apparenza. E’ l’espressione di un’impressione, di un’emozione, dell’immediato ed è qui che diventa esplicita la sua congenita vicinanza al linguaggio del rock’n’roll. Le parole sono tagliate e assemblate a colpi di accetta, come se fossero Polaroid, incisioni profonde e precise che hanno gli stessi effetti di un riff in una canzone: ti prende e non ti molla più. Per fissare un punto nella geografia della vita gli serve una riga, poco meno, poco più: “All’improvviso fui colto da un panico spaventoso. Ero tra questi due mondi. Il mondo che mi ero lasciato alle spalle e questo nuovo mondo. Non avevo idea di dove andare”. I rifugi provvisori e senza difese di una camera di motel o dell’abitacolo di un automobile sono piccole ed effimere illusioni anche perché “la gente qui è diventata la gente che fa finta di essere” e non riguarda soltanto Hollywood e la California. E’ “fuori”, è “dentro”. E’ nella scrittura di Sam Shepard ed è nella lettura di chi legge che si chiede (e si risponde): “Qual è il punto da cui diventa pericoloso spingersi oltre? E mi resi conto che il momento delle domande arriva quando pensi di esserti già spinto troppo in là”. Fuori ormai c’è il deserto, un posto dove la parole non contano più nulla perché comunque per chi aggiorna le Motel Chronicles “non cambia niente. Tanto vale non saperlo se proprio vuoi la verità. Tanto vale prenderla come viene. Senza scaldarsi tanto. Se mi dissolvo mi dissolvo. Punto e basta. Tanto vale dissolversi in pace”. Leggerlo è come sbirciare attraverso una fenditura di luce: “dentro” e “fuori” a uno film stupido “sì, ma mai come la vita”.

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