giovedì 19 novembre 2015

Kent Haruf

Diceva tempo fa Jim Harrison, l’unico scrittore che, con Cormac McCarthy, si può accostare a Kent Haruf: “A me piace il coraggio, mi piacciono l’amore e la morte, sono stanco dell’ironia”. Ecco, nel Canto della pianura c’è la vita che va e che viene e si dipana nel racconti di Kent Haruf come una ballata country & western, diciamo Alone And Forsaken di Hank Williams, per non sbagliare. L’essenza è quella, anche se c’è una forza nei protagonisti che riesce a superare la tristezza di momenti imprevisti, duri e infelici. L’aiuto inaspettato arriva proprio da Kent Haruf che rimane vicino ai suoi personaggi e concede a tutti una seconda chance. Chi resta escluso è perché ha bisogno di un avvocato o si lascia l’ipotetica Holt alle spalle. La fuga apre altri scenari, non previsti, mentre il Canto della pianura è fatto di piccoli incastri, che si rivelano di volta in volta, senza particolari colpi di scena. Comincia con un germoglio vitale più, nella gravidanza di Victoria Roubideaux, poi si snoda all’interno di un perimetro ben delineato, una mappa che potrebbe stare su una pagina del libro, con una mezza dozzina di punti strategici, compreso il domicilio del protagonisti. Si incontrano per traiettorie divergenti e inafferrabili: i legami sono molto fragili e vengono definiti dallo stesso ambiente, dalle stagioni, dalle condizioni atmosferiche. Sembrerà paradossale, ma la vita nelle smalltown è limitata dagli spazi, e dai difetti congeniti delle parole e del linguaggio. L’espressione del paesaggio attraverso il senso di Kent Haruf per la frase, asciutta, eppure densa, forte e ruvida, ma elegante nella sua essenzialità, è la forma lineare, orizzontale (perché così è il territorio) di una narrazione limpida, senza esitazioni, “plain spoken”, come direbbe John Mellencamp, e per non andare troppo lontani dal titolo. La bellezza del Canto della pianura sta proprio in quel parlare piano, chiaro, che la scrittura di Kent Haruf, appuntita e artigianale nella composizione, e così accurata della definizione, riesce a rendere come se fossimo lì, sulla terra, nella polvere e nella neve. Non leggi, non immagini: sei dentro, gli sei accanto. Lo senti, il Canto della pianura. Li senti, uomini (e bambini) e donne che si inseguono, si abbracciano, si abbandonano, si perdono e si trovano.I profili psicologici dei personaggi di Ike e Bobby, della madre chiusa in camera, di Tom Guthrie e Maggie Jones emergono senza bisogno di spiegazioni. Incontri che si compongono e si consumano seguendo le bizze di un destino che è impalpabile come il vento sulla pianura. I profili si stagliano nitidi, alcuni convessi, altri concavi, si vanno a incastrare e si specchiano uno nell’altro. Divergenti, complementari, perché Holt, che è difficile chiamare città, non è poi così grande. C’è una tenerezza, all’improvviso, dove meno te l’aspetti, un po’ di compassione sulla pianura dura e fredda. Una nota di speranza battuta dalle raffiche di gelo e dall’odore degli animali che spunta dai burberi fratelli McPheron. Parlano pochissimo, anche meno degli altri, ma si rivelano generosi quel tanto che basta da rendere meno arido il tempo che passa, inesorabile. Forse sono anche naïf, perché c’è una bizzarra nota di brio nei loro passaggi in Canto della pianura, ma l’effetto benefico dei McPheron sull’intera storia è la conseguenza di gesti spontanei (o quasi) che si propagano incontrollati, dentro e fuori, mitigando piccoli e grandi contrasti da una casa all’altra, un giorno più, un giorno meno. Holt è solo il punto in fondo alla domanda, non c’è via d’uscita. L’astio, la solitudine, e poi la tristezza. Avere una possibilità, non restare soli. Fine delle alternative. L’ironia della vita può aspettare, ancora un po’.

2 commenti:

  1. Bellissima recensione, dice cosa e come dovrebbe essere detto quando si racconta un romanzo. E fa venire voglia di riaprire quelle pagine.

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