lunedì 4 ottobre 2010

Marilynne Robinson

La lunga ballata di John Ames è un intenso sguardo al crepuscolo della vita, quando la soluzione finale è ormai alle porte. A settantasei anni, John Ames sa cosa dovrà affrontare: avendo predicato e celebrato per tutto il corso della sua esistenza i misteri gaudiosi e dolorosi della vita e della morte, ne conosce la forma, l'evoluzione, i risvolti. Sa alla perfezione che “sotto la superficie della vita si cela una gran quantità di cose, questo lo sanno tutti. Tanta cattiveria, paura e colpa, e tanta di quella solitudine, anche dove meno ti aspetteresti di trovarla”. Sa anche che non c'è modo di spiegarne l'intima sostanza e se ne accorge quando sente che sta per arrivare il suo momento: “Saprò tutto quel che c'è da sapere sulla morte, o quasi, ma con ogni probabilità me lo terrò per me. Così stanno le cose, a quanto pare”. L'affermazione non è ovvia come potrebbe sembrare a una lettura superficiale: nel suo recinto di parole c'è tutto il rapporto con la fede e l'impossibilità di John Ames di testimoniarla ancora, una volta chiusa la pratica terrena. E' qui che, dopo averla praticata tutta la vita, ritrova il coraggio della parola per ripristinare un ordine, per trovare il modo di lasciare al figlio una mappa, un lascito, un suo ritratto. L'impegno di John Ames è tale che risalendo l'albero genealogico della sua famiglia ricostruisce anche alcuni passaggi vitali dei due secoli di esistenza degli Stati Uniti d'America, e per quanto sia sorretto dalla fede e dall'amore per la sua famiglia, non si lascia mancare i dubbi perché “la nostra vita di sogno finirà come finiscono i sogni, in modo brusco e totale, quando sorge il sole, quando arriva la luce. E penseremo: tanta paura e tanta sofferenza per niente. Ma non può essere vero”. Nell’affrontare l’ardua missione di John Ames e l’ancora più complessa personalità, la voce di Marilynne Robinson è forte e sicura e quello che nella sostanza è un lungo monologo, si svela come un romanzo molto coraggioso nella sua particolare forma (appunto) ma anche nell'insistere su temi maiuscoli: la vita, la morte, la fede, i legami, la memoria, la conoscenza, la speranza. E' una sfida che chiede molto al lettore, ma all'interno di un rapporto biunivoco perché Marilynne Robinson ha un'eleganza, quasi una forma di leggerezza nel sapere interpretare fino in fondo il carattere di John Ames e, nei suoi momenti migliori, sa essere nello stesso tempo semplice e lirica. Persino con un tocco di genialità, perché rendere semplice un tema complicato, è la forza di una grande scrittrice. Succede, tra l’altro, in uno dei passaggi fondamentali di Gilead dove deve spiegare il tono crepuscolare ovvero la rarefatta atmosfera in cui è immerso John Ames con il suo delicatissimo testamento: “Di quanto in quando mi piace molto la tranquillità di una domenica qualunque. E' come stare in un giardino appena seminato dopo una pioggia tiepida. Si riesce a sentire la vita silenziosa e invisibile. L'unica cosa che ti chiede è di fare attenzione a non calpestarlo”. Da leggere e da rileggere, ma solo dal tramonto in poi.

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