venerdì 18 agosto 2017

Stephen King

Quando Boston viene “esposta” a una generale devastazione, partita da “una specie di imperativo di gruppo” filtrato dai cellullari, Clayton (Clay) Riddell, disegnatore e sceneggiatore, sta pensando a un regalo per il figlio, che lo aspetta a casa. Attorno a lui, “come in un film dell’orrore” (Stephen King non resiste alla tentazione della battuta), uomini e donne si trasformano in orde disperate e fameliche. Per Clay, l'unica speranza è l'incontro con Alice Maxwell e Tom McCourt che, con un ultimo scampolo di lucidità, suggerisce ben presto la fuga: “Sono sempre stato lento ad arrivarci, ma mai uno che non ci arriva. La città brucerà e a farsi arrostire resteranno solo i matti”. Come pellegrini in cerca di una destinazione che non c’è più, perché è tutto “insensato”, partono spinti dall'istinto per la sopravvivenza e dall’amore filiale di Clay che lo porta a sfidare la sorte (segnata) e ad accorgersi che le regole ormai sono cambiate perché come lui stesso: a) “Credete che tutti quelli che sono scappati si siano ricordati di spegnere il gas?”; b) “A che cazzo serve la fine del mondo se uno non può sfondare un fottuto steccato?”. Le domande sono retoriche e le risposte vanno cercate nella dissertazione Charles Ardai, professore, preside e protagonista della svolta centrale di Cell: “Alla base, vedete, noi non siamo affatto homo sapiens. Il nostro nocciolo è la follia. La direttiva primaria è l’omicidio. Quello che Darwin per delicatezza non ha voluto dire, amici miei, è che se siamo diventati i padroni del mondo non è stato perché siamo i più intelligenti o nemmeno i più crudeli, ma perché siamo sempre stati i più pazzi e sanguinari figli di puttana della giungla”. Non è comunque sufficiente quando un “errore irreversibile di sistema” genera un organismo che va oltre il “comportamento da branco”, o da “stormo” e si muove e si sviluppa come un virus, sintomo evidente che una parte (considerevole) della “società tecnologica” ha già preso il sopravvento. Solo che in Cell la forma di odio e di follia che Stephen King chiama “Stati Unicellulari d’America”, non nasce dalla tecnologia, in particolare dai telefoni. Avanza attraverso quegli strumenti, li attraversa per crescere verso una dimensione onirica e telepatica. I toni apocalittici consentono la distinzione tra una presunta normalità (a partire dall’uso della tecnologia) e un dubbio morale di fronte al nuovo organismo biologico perché “la razionalizzazione era un grande sport umano, forse il più grande sport umano, ma quella notte non avrebbe cercato di truffare se stesso: certo che quella era la sua vita. Qualunque cosa fossero o qualunque cosa stessero diventando, erano comunque e sempre esseri viventi”. La distinzione, che rimane impigliata nelle pieghe del racconto di Stephen King, non è relativa ed è parte integrante di “un modo faceto di esprimere un piccola denuncia politica”. Gli interrogativi restano annunciati e sospesi, un po' come il convulso finale: Stephen King, as usual, è attaccato al nocciolo della storia e dell'azione di Cell e l'unico, nitido avvertimento ai viaggiatori rimane quello di Tom McCourt: “Credo che se vogliamo avere qualche speranza di sopportare quello che ci aspetta d’ora in avanti, dovremmo trovare la maniera di congelare per qualche tempo le nostre sensibilità più vulnerabili”. Su questo, ormai, ci sono ben pochi dubbi.

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