lunedì 3 luglio 2017

Don Winslow

Dennis Malone ha dettato legge nelle strade di New York con la Manhattan North Special Force, un team della polizia chiamato, nel gergo di Harlem, Da Force. Per vent’anni “la sua città, la sua zolla, il suo cuore” hanno combaciato, poi qualcosa si è rotto, e si è ritrovato a guidare una folla di fantasmi verso un destino segnato. Don Winslow sa di mettere mano a una materia instabile e scivolosa e non concede distrazioni. Il ritmo tambureggiante, noncurante di qualche screpolatura, è un tuffo senza rete. Seguire il sergente Malone negli androni e nelle “verticali” di Harlem non prevede biglietto di ritorno. Non c’è alcun elemento posticcio, suspense o colpo di scena. E’ un naufragio metropolitano, ogni capitolo sempre più a fondo. Nella costituzione stessa di Da Force, che deve occuparsi dell’intersezione tra spaccio e violenza, c’è il peccato originale che vede in Denny Malone, il protagonista indiscusso: la sua squadra rispecchia la composizione cosmopolita della città con gli elementi etnici originari (irlandesi, ebrei, italiani e afroamericani), mentre quella di Rafael Torres è costituita da latinoamericani. Anche se, come dice uno dei “fratelli” di Malone, Monty Montague, “la maggior parte dei poliziotti non distinguono tanto tra bianchi e neri, ma tra poliziotti e tutti gli altri”, il confronto, e poi scontro, tutto intestino all’unità di polizia, è il primo sintomo dell’ambivalenza che regna sovrana nel romanzo. Come è nella natura stessa della Corruzione, dove vittima e colpevole sono intercambiabili, tutto è doppio, e non solo sulla scena del crimine. Denny Malone e la sua squadra hanno famiglie e figli, ma anche una vita notturna assai movimentata, con vizi e lussi, amanti, fidanzate e puttane, alcol (un fiume) e droghe, rituali e segreti. Da qualche parte, dovranno pure attingere. Per dirla con le loro stesse parole, “ballano nella giungla con tutti gli altri animali. O con gli angeli. Chi cazzo può capire la differenza”. Come si può intuire dal titolo, Da Force si concede molto (molto) di più, le leggi sono sigle che viaggiano insignificanti nell’etere, la dichiarazione dell’obiettivo minimo e indispensabile è fin troppo esplicita nella sua ambiguità: “Abbiamo un solo compito: tenere la posizione. Il resto sono dettagli”. La trincea è Harlem: nonostante i recenti aggiornamenti, l’architettura cresciuta in modo disordinato, gli isolati “fatti di ricordi”, le speculazioni edilizie e le tensioni razziali sono rimasti elementi esplosivi insieme con “gli ingredienti di sempre: povertà, disoccupazione, spaccio e gang”. A maggior ragione, per Da Force, “non importa quello che fai o come lo fai (finché non finisce sui giornali), basta che tieni gli animali dentro le gabbie”. Finché un procuratore con una carriera spianata davanti non incastra Malone, scoperchiando un vaso di Pandora dagli esiti imprevedibili. La struttura, la geografia di Harlem, la natura stessa della storia fanno di Corruzione il nuovo capitolo della tragedia urbana americana dopo i romanzi di Richard Price (a cui Don Winslow deve parecchio) e American Gangster di Ridley Scott (da cui filtra qualche riferimento visivo) insieme ai precedenti casi di “infami” reali ovvero Serpico e Michael Dowd, emblematici non tanto nello svelare il sistema, quanto nell’incrinare la certezza che quel sistema sia ovvio e inamovibile visto che, come ammettono gli stessi protagonisti, “siamo tutti corrotti. Ma ciascuno a modo suo”. Un concetto ribadito spesso, per far capire il meccanismo e le regole della Corruzione, è questo: “Come fai a superare il limite? Un passo alla volta”. La corruzione è endemica e mutevole: assume forme diverse più si risale la scala gerarchica, dal capo della polizia al sindaco fino a Washington, dato che “il sistema americano prevede che verità e giustizia si salutino se si incrociano in corridoio, magari si scambino gli auguri di Natale, ma il loro rapporto finisce lì”. La metafora è calzante, la Corruzione si regge sulla condivisione, sull’indifferenza, sull’omissione e sul codice del silenzio. C’è quasi un altro romanzo implicito nelle opinioni inespresse di Malone che, in uno dei momenti momenti più drammatici, quando deve fare un discorso a tutta Da Force, consiglia ai suoi uomini: “Dite loro la verità: che non sapete nulla. Pensare di sapere qualcosa e saperla davvero sono due cose diverse. Se date del formaggio ai topi, loro continuano a tornare. Se teniamo pulita la casa, i topi se ne vanno”. Le distorsioni sono molto più complesse e senza accorgercene ci ritroviamo a chiederci i motivi dell’empatia con Denny Malone che è corrotto fino al midollo e “infame”. Forse perché, anche se si crede il re, lui e la sua squadra sono soltanto le pedine sacrificabili di una partita più grande. Forse perché “i poliziotti vedono prima le vittime e poi i colpevoli”, e almeno questo gli va riconosciuto, ma in fondo è soprattutto perché è soltanto l’ultima preda di una feroce catena alimentare, e all’alba di ogni giorno è costretto a dirsi che “a ogni modo, racconti a te stesso quello che serve per fare ciò che devi fare. E qualche volta persino ci credi”. Trascinante.

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