martedì 27 dicembre 2016

Tom Wolfe

Partendo dall’idea che il linguaggio è “una linea di demarcazione netta”, Tom Wolfe si diverte a incrinare le teorie conclamate di Charles Darwin e Noam Chomsky. Non si accontenta, non si adegua e non teme né abiure né faide: a lui interessa “non tanto cosa il linguaggio può fare, quanto piuttosto che cos’è”. Il regno della parola è fondato su questa distinzione e sia nei confronti dell’ipotesi evolutiva quanto per quella genetica, Tom Wolfe dispensa un’analisi ironica e avvincente. La ricostruzione degli albori della teoria evolutiva, che ne mette in risalto i limiti, e l’ambiente in cui è maturata, è a metà strada tra un thriller e una commedia, a tratti spassosa. Il rocambolesco susseguirsi di eventi e aneddoti che vedono Charles Darwin protagonista di una svolta per l’intera civiltà umana, viene buttato da Tom Wolfe con gran allegria butta per in aria per vedere poi come viene giù: “Nel 1837, Darwin era caduto senza accorgersene nella trappola del cosmogonismo, l’ossessione di trovare la sempre sfuggente teoria del tutto: un’idea o una narrazione in grado di spiegare come ogni cosa al mondo rientri in uno schema unico e chiaro”. Non essendoci spiegazioni condivisibili, concrete e indiscutibili sulle origini e sulle funzionalità del linguaggio, Tom Wolfe se la gode, ed è evidente, a smontare le strutture portanti delle ricerche di Darwin: “Come ogni cosmogonia, era un racconto serio e onesto che mirava a soddisfare l’insaziabile curiosità dell’uomo sulle proprie origini, su come era giunto a essere così diverso dagli animali intorno a lui. Ma restava un racconto. Non era una dimostrazione. In poche parole, era sincera ma semplice letteratura”. La sentenza di Tom Wolfe è inappellabile: “Sull’origine del linguaggio, anche Darwin, come tutti, brancolava nel buio”. A Noam Chomsky concede qualche vantaggio in più, ma non è meno inconoclasta. Avendo individuato “l’organo del linguaggio”, ovvero e in estrema sintesi, considerandolo innato, Noam Chomsky, “stava dando ai linguisti anche l’aria condizionata”. Una battuta che lo stesso Tom Wolfe spiega così: “Aveva fornito loro un sistema completo: struttura, anatomia e fisiologia del linguaggio. Rimaneva però lo sconcertante problema di capire cosa fosse il linguaggio: la creazione delle parole, i suoni specifici e come venivano messi insieme, la meccanica del più grande potere noto all’uomo”. Anni e anni di studi, centinaia di libri, dozzine di università impegnate a tempo pieno e Il regno della parola è ancora lì: esiste, eccome, ma è indefinito nella sua essenza ultima. Succede poi che Daniel Everett, già allievo e collega di Chosky, scopre una piccola e singolare tribù amazzonica, vive con loro e giunge alla conclusione che il linguaggio non è innato o, come riassume Tom Wolfe, “non si era evoluto da un bel niente: era un’opera umana, un artefatto. L’uomo, proprio come aveva selezionato i materiali naturali, il legno, i metalli, e li aveva messi insieme per costruire una scure, aveva preso i suoni naturali e li aveva combinati in codici che rappresentavano oggetti, azioni e, in ultima istanza, pensieri e calcoli, chiamando quei codici parole”. L’inevitabile, lunga diatriba tra Daniel Everett e Noam Chomsky, non dissimile (anzi, speculare) a quelle maturate attorno a Charles Darwin, si concluderà con l’ammissione da parte di un team guidato proprio dallo stesso Chomsky che “l’evoluzione della facoltà del linguaggio rimane in gran parte un enigma”. Fin troppo facile per Tom Wolfe mettere a nudo la pretenziosità delle contese scientifiche e accademiche, ma in fondo lo fa con un ghigno sornione perché sa che si tratta di astrazioni, in gran parte dimostrabili e accettate, ma che alla fonte poggiano sempre su “un’idea blasfema, mortalmente peccaminosa eppure eccitante, odorosa di fama e di rilucente di gloria”. Solo che a quel punto Il regno della parola ormai ha già pronti i fuochi d’artificio: “Era grandioso, ancorché in senso fallimentare, questo sfoggio universale, definitivo, assoluto e pluridecennale d’ignoranza riguardo la dote più importante dell’uomo”. L’ingorgo di aggettivi rende bene lo spirito di Tom Wolfe, che poi conclude in fretta, non solo sposando il concetto secondo Andy Clark per cui il linguaggio resta un “artefatto fondamentale”, ma da lì estrapolando persino una sua definizione: “E’ stato il primo artefatto, il primo caso in cui un vivente, l’uomo, ha preso elementi della natura, i suoni, e li ha trasformati in qualcosa di integralmente nuovo e artificiale: sequenze fonetiche che formano codici, codici chiamati parole. Non solo il linguaggio è un artefatto, ma è il primo artefatto”. La conclusione è lapidaria, non dovendo dimostrare nulla né all’accademia né ad altri, ma cade ancora lì, nel campo delle probabilità, dove Tom Wolfe ha fatto sbattere sia Darwin che Chomsky. La provocazione in sé, limpida, dettagliata e puntuale, era più che sufficiente.

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