mercoledì 28 dicembre 2016

Amanda Petrusich

Più che la storia di un disco, ovvero Pink Moon, è quella di un artista, di un ragazzo fragile e confuso, e malato, che si ritrovò a confrontarsi con i meccanismi tutt’altro che gentili e comprensivi del processo di creazione, e poi di commercializzazione della musica. I suoi dischi vendettero qualche migliaio di copie (oggi potrebbero bastare, allora erano del tutto risibili) ed ebbero una risonanza critica relativa, e non sempre entusiasta, per usare un eufemismo. “La sua storia è nelle canzoni. Più passa il tempo più sembrano parlarci di lui, e di nessun altro” ha detto Joe Boyd, il produttore, e con ogni probabilità la persona che è stata più vicina a Nick Drake e Amanda Petrusich ha cercato di condividere la passione per quella mezz’ora di musica, acustica, scheletrica (molto bella la ricostruzione del suo primo “incontro”) con altrettanti fans tra cui Lou Barlow (Dinosaur Jr., Sebadoh), Damien Jurado, Curt Kirkwood (Meat Puppets) Duncan Sheik, Robyn Hitchcock, ed è sua la migliore definizione: “Pink Moon è una lezione di umiltà”. La bellezza resta indefinibile, anche perché non fu del tutto compresa quando quel disco uscì, nel 1972. Qualche risposta in più su Nick Drake cresce pagina dopo pagina: la sua vita e la sua morte rimangono un mistero incompiuto, se si cercano risposte oltre le patologie, ma la sua riscoperta è ormai universale, soprattutto grazie a Milky Way, un raffinato spot della Wolkswagen che usava proprio Pink Moon, come colonna sonora, senza alcun commento aggiuntivo. Serve ancora una delucidazione di Joe Boyd che in Le biciclette bianche ricordava così quel preciso momento: “Quando la pubblicità della Wolkswagen arrivò sulle televisioni americane, esisteva già il culto di Nick Drake, di dischi se ne vendevano decine di migliaia all’anno e quello di Nick era, per i giovani cantanti, un bel nome da dire quando gli si chiedeva di citare le loro influenze. La musica di Nick, come i critici spesso affermano, è eterna? O si è sganciata dal suo tempo perché non è riuscita a legarsi al pubblico quando fu pubblicata? La musica di Nick non fu mai una colonna sonora dei ricordi dei genitori, quindi il pubblico moderno è libero di farne la propria”. E’ successo esattamente così ed è dove l’analisi di Amanda Petrusich comincia davvero perché, prendendosi l’onere di intervistare gli addetti ai lavori (dai copywriter ai registi), è andata a scandagliare, e fino in fondo, l’ambiguo rapporto tra musica e pubblicità. L’originalità della suo saggio su Pink Moon sta proprio lì ed è ben rappresentato nella definizione della musicologa Bethany Klein che Amanda Petrusich cita in modo assai opportuno: “Credo che la musica pop, intesa come arte, sia un fenomeno molto più complicato. Secondo un mito difficile da sfatare, per arte e musica il fine primario è quello estetico, ma ciò ovviamente non è sempre vero. Tuttavia, anche se finiamo per accettare l’idea che la musica pop sia essenzialmente un prodotto commerciale, essa ci fornisce, sia come individui che come società, qualcosa che gli altri prodotti commerciali non ci forniscono: un veicolo attraverso il quale esplorare emozioni, identità, significati”. Un ottimo lavoro, proprio perché riesce a riannodare Nick Drake all’attualità, senza scadere nell’agiografia, e andando a raccontare l’evoluzione di molte idiosincrasie, in particolare proprio quella che oppone il valore dell’integrità della musica al suo utilizzo nella pubblicità. Non funziona, ma quando funziona, è grande.

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