martedì 2 agosto 2016

James Ellroy

L’America all’alba di Pearl Harbour, l’America di oggi, trovate le differenze. Adesso come allora, “gli appetiti sono nell’aria” e l’ambivalenza della guerra, che “dà agli uomini qualcosa da fare, in modo puro e semplice”, si manifesta a più livelli: consolida lo status quo (“Non è il momento adatto per la sovversione”), celebra le nuove opportunità, e sfodera una prospettiva non del tutto inedita, ma sempre efficace visto che “la gente sembrava condividere un nuovo senso di lealtà. Tutto era nuovo. Molti sembravano la personificazione della sorpresa. Alcuni la personificazione della rivelazione”. E’ così che nel dicembre 1941 l’illusione del melting pot viene marchiata a fuoco dall’inizio delle ostilità nel Pacifico. L’isteria razziale e razzista parte dai giapponesi e coinvolge tutti: cinesi (soprattutto), tedeschi, russi nell’immediato futuro, italiani, messicani, americani. E’ un nervo malato che James Ellroy lascia scoperto con somma disinvoltura ed è l’energia crudele che governa l’atmosfera di quella Los Angeles che “andava avanti a insonnia, sigarette e liquori”. Al parziale elenco di vizi e disturbi (pubblici e privati, nessuna distinzione) vanno aggiunti additivi chimici e naturali, aborti clandestini e morali cattoliche, rastrellamenti e confische, tangenti e protezioni, intrighi e quinte colonne e, last but not least, una lunga teoria di omicidi. Le “confluenze”, come le chiama James Ellroy portano sempre verso “lo stato di polizia” del dipartimento di Los Angeles, dove William Parker e Dudley Smith sono i due poli uguali e opposti di un magnete ubriaco che attira legioni ed emana ambiguità. Sono tutti “complici nella calunnia del sangue”, sospesi tra l’autodistruzione e la sopravvivenza e nessuno è portato alle confessioni. A Hollywood, dove chiunque finge di essere qualcos’altro e l’imperativo è trasformare tutto in un film, la verità resta una chimera. Ben presto, in Perfidia le connessioni storiche e i riferimenti geopolitici, per quanto espliciti e coerenti, hanno un peso relativo nelle singole parabole e nella storia nel suo complesso, dato che “i collegamenti circostanziali e le paranoie” vanno a sovrapporsi. James Ellroy è spietato con i suoi personaggi che, a quanto pare, ricambiano e sono puntualissimi a farsi trovare sulla soglia, in fallo, in pericolo, sull’orlo del baratro e (anche) più in là. Gli uomini quanto le donne (e spesso più le donne degli uomini) sono incontrollabili, vagano impazziti inseguendo ambizioni, pulsioni, deduzioni, visioni e intuizioni. Nonostante gli sforzi, il loro destino è segnato visto che “la merda ha tendenza a schizzare in giro, soprattutto quando si mescolano i soldi e l’ideologia”, ed è proprio quello che succede dall’inizio alla fine di Perfidia. James Ellroy è micidiale a spiegare come “come parole e pensieri avvelenano lo spirito umano con un intento criminale sistematico” e il finale pirotecnico è anche cupissimo perché poi la guerra comincia davvero, gli uomini se ne vanno e il flusso inalterato del racconto fissa soltanto “quel breve caos che si porta via vite inutili e lascia i sognatori spietati liberi di ricominciare da capo”. Qui, più che mai, il meccanismo delle reiterazioni di James Ellroy segue una sequenza matematica, è esponenziale e ipnotico e ossessionato dal ritmo, e il ritmo è randagio e swing con Paul Robeson, Gene Krupa, Count Basie, Jimmie Lunceford, George Gershwin e Glenn Miller (a cui deve il titolo). “Il tempo è un juke-box” e Perfidia è una monumentale, devastante valanga di ottocento pagine che rende benissimo l’idea che “il mondo è un posto strano e incasinato”. Nel dettaglio, la tempesta americana si nutre di benzedrina, idrato di terpina, oppio, morfina e alcol come se piovesse per placare una sete tragica, ma l’unica, vera droga resta il potere.

Nessun commento:

Posta un commento