venerdì 24 giugno 2016

Kent Haruf

Il baricentro della trilogia della pianura si sposta nel secondo capitolo verso i fratelli McPheron, Harold e Raymond. Attorno a loro due e a Victoria Robideaux e alla figlia Katie si coagulano, secondo vie casuali e non, le gesta della tristissima famiglia Wallace, Luther e Betty (i genitori) e Joy Rae e Richie (i figli), dell’assistente sociale che li segue, Rose Tyler, di DJ Kephart e del nonno Walter, di Dena ed Emma e della madre (Mary Wells) e volti già apparsi, come Maggie Jones che, anche davanti a tanto disordine e a tanta solitudine, non si scompone e dice: “Ho già visto un sacco di casino in vita mia”. Capita a tutti e per ognuno è un piccolo tassello, la battuta di un ritmo, e succedono così tante cose nello “spettacolo della vita” di Holt, dove non succede niente, ma è tutto importante perché, come dice Raymond McPheron “ci sono cose che non si superano mai”. La concatenazione degli eventi è tale che, raccontando anche un singolo episodio, si rischia di rivelare tutta la trama di CrepuscoloMerita di essere ricordato almeno il passaggio in cui i piccoli Dena e DJ si ricavano uno spazio in una baracca costruita e arredata con i resti trovati per le strade di Holt. E' dentro quelle sgangherate pareti che “per quel breve momento ciò che succedeva nelle case da cui venivano sembrò avere scarsa importanza”. Quel poco di salvezza è lì e si tratta di una distanza universale: più che l’America, Holt è la provincia, dove tutti si conoscono e all’emporio ti chiedono se paghi subito o se te lo addebitano sul conto della fattoria. In Crepuscolo, quasi a rimarcare i confini della trilogia, la mappa di Holt e dei dintorni che si allungano su tutti i quattro punti cardinali (Fort Collins, Norka, Brush, Phillips, Fort Morgan, Greeley via via fino a Denver che resta molto lontana) emerge come un bassorilievo. Anche i ritrovi abituali, persino le strade e le campagne, ricorrono con maggiore frequenza, come a confermare che “contavano quasi soltanto le consuetudini e i capricci del momento”. Sono punti di riferimento nello spazio e così nel tempo, perché come scriveva Simon Shama in Paesaggio e memoria“il paesaggio, del resto, può essere intenzionalmente disegnato per esprimere le virtù di una determinata comunità politica e sociale”. Il genius loci di Crepuscolo e per estensione di tutta la trilogia della pianura ha il volto di tutti i volti, la vita di tutte le vite e Kent Haruf è stato straordinario a renderlo trasparente con una “visibilità” come la intendeva Italo Calvino che è l’altra faccia, quella in ombra, del suo raffinatissimo stile. Parafrasando Dante nel corso delle sue Lezioni americane, Calvino diceva che “la fantasia è un posto dove ci piove dentro”, e a Holt piove, nevica, tira vento, gli unici elementi degni di nota sono quelli meteorologici, insieme ai movimenti del cielo in lontananza, all’orizzonte. D’altra parte l’economia rurale dipende dalle stagioni e dalle declinazioni climatiche e carpire le sfumature è l’elemento trainante, in fondo la cifra stessa dell’abilità principale di Kent Haruf. Ed è leggere nei paesaggi, nelle luci e poi nei gesti e nei dialoghi che si innestano l’uno nell’altro, trasformandoli in strati ben accuditi di parole che formano le storie. L’equilibrio si vede anche nella forma dei paragrafi, che si modellano con armonia e si incastrano uno nell’altro, senza soluzione di continuità. Tirando le somme per Crepuscolo e allargando l’ispezione all’intera trilogia della pianura, il modello di riferimento e l’influenza più evidente, riconosciuti a sua volta da Kent Haruf, vanno cercati in William Faulkner, in particolare, quello di Mentre morivo, dove scriveva: “è come se lo spazio che ci separa fosse tempo: una qualità irrevocabile. E’ come se tutto il tempo, smettendo di scorrere dritto davanti a noi in linea decrescente, corresse ora parallelo fra noi”. La stessa natura di Holt (e dintorni) riporta alla contea più famosa (per quanto altrettanto immaginaria) della letteratura americana, quella di Yoknapatawpha e, sì, il termine di paragone resta quello. Solo che Kent Haruf lo stempera con più speranza e meno angoscia e anche una sua delicatezza che si traduce, prima di tutto, nell’invenzione di un nome infinitamente più accessibile, scelta di cui, tra l'altro, gli saremo grati per sempre.

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