lunedì 22 giugno 2015

Jenny Offill

Marito e moglie (lo stato civile definisce anche i nomi dei protagonisti) vivono nel matrimonio la difficoltà di comunicare, con se stessi, e con gli altri. Sono giovani, colti, titubanti, sempre collegati, sempre pensierosi. Il marito è pratico, limitato, evanescente. Sogna il pianoforte, si accontenta di mantenere la famiglia che ben presto si allarga con l'arrivo di una figlia di particolare vivacità. La moglie è una ragazza che convive con con un tantino di problemi irrisolti. E' convinta che “amore è la parola che usano gli uomini per indorare la pillola” ed è tormentata dalla sua costante crisi di identità. Vorrebbe essere un mostro di artista, vorrebbe essere felice, ma come dice uno dei suoi poeti preferiti, Rainer Maria Rilke: “Le opere d'arte sono sempre il frutto dell'essere stati in pericolo, dell'aver vissuto un'esperienza sino a un punto oltre il quale non si poteva andare”. Lei si ritrova a insegnare e a scrivere un libro sui voli spaziali per un eccentrico magnate e nel frattempo è incastrata nel matrimonio, dalla maternità e dagli angusti confini della città. E' sicura soltanto che “un uomo va in giro per il mondo in cerca di posti dove si possa stare immobili e in assoluto silenzio. Pensa che sia impossibile trovare la calma in città perché non si possono sentire gli uccelli cantare. Le nostre orecchie si sono evolute per farci da sistemi di allarme. Dove non ci sono uccelli che cantano, siamo in grande allerta. Vivere in città significa stare sempre sul chi vive”. L'equilibrio è fragile, le parole che non si sommano ai pensieri (e viceversa): la moglie diventa sempre più insofferente, il marito, con una deviazione che pare inevitabile, la tradisce con un'altra “più alta? Più magra? Più tranquilla? Più facile, dice lui”. L'atmosfera è quella plumbea e malinconica delle canzoni dei National, compreso l'esodo dalla città, da quella particolare porzione che è Brooklyn, e nelle coincidenze c'è l'imbarazzo della scelta tra Afraid of Everyone, Terrible Love, Baby, We'll Be Fine e persino Looking for Astronauts. Il suggerimento dell'ipotetica colonna sonora vale anche come omaggio all'arte della citazione sfoggiata da Jenny Offill che dissemina Sembrava una felicità di una lunga teoria di motti, versi, aforismi che mettono la lettrice un passo avanti rispetto alla scrittrice. La sua scelta, per l'occasione, è fatta di un tono essenziale, persino algido a tratti, compresso in schegge taglienti, brevi paragrafi composti da una proposizione (o due), a volte da una sola riga. Quest'attitudine, insieme pop e poetica, si risolve in una scrittura che pur apparendo frammentaria e caleidoscopica nel suo svolgersi ha un'attenzione maniacale alle emozioni dei suoi personaggi, tanto che la moglie, già all'inizio di Sembrava una felicità, quasi intuendo le future orbite esistenziali, dice: “Ricordati di quel cartello, di quell'albero, di quella strada dissestata. Ricordati che ci si può sentire così”. Non si capisce se è l'ennesima epigrafe (a quel punto, e siamo solo nelle prime pagine, sono già apparsi, tra gli altri, Socrate e Nabokov) o se Jenny Offill e va bene così perché il gioco tra lettrice e lettore continua fino alla fine. Originale.

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