domenica 25 agosto 2013

Stephen King

Devin Jones è stato lasciato dal suo primo amore (insopportabile) e per ovviare all’ossessivo pensiero dell’abbandono decide di trascorrere un’estate a lavorare in un parco di attrazioni nella Carolina del Sud. Una volta entrato a Joyland verrà chiamato Jonesy e la sua specialità sarà impersonare Howie, il cane che è la mascotte del luna-park, indossando un costume che è una tortura. Oltre a una nutrita schiera di pittoreschi personaggi, Joyland è abitato dal fantasma di Linda Gray, uccisa e abbandonata della galleria degli orrori, ed è l’unico elemento fantastico della storia. Stephen King ha una leggerezza tutta sua quando si avvicenda dal danse macabre e si possono perdonare le ripetizioni, qualche caduta di tono, una cerca meccanicità perché Joyland si sviluppa “proprio come una canzone” o meglio attingendo a un immaginario speciale, che meriterebbe un saggio a parte. Big Joe Turner e Johnny Otis suonano o hanno suonato nell’auditorium di Joyland, Madame Fortuna o Rozz o Rozzie (i nomi variano con l’umore e le interpretazioni) cita Good Vibrations dei Beach Boys, poi vengono richiamati all’appello in un modo o nell’altro Jimi Hendrix, John Lennon, gli Hollies, i Beatles e gli Stones. In una ghost story non potevano mancare (e si rivelano fondamentali) i fantasmi più rilevanti della storia del rock’n’roll, la voce di Jim Morrison nei Doors ed Elvis che all’epoca di Joyland (siamo nel 1973) non ancora lo spettro più famoso d’America. A proposito di canzoni: la prima che viene citata è Stay With Me dei Faces ed è la chiave per entrare nella storia: per inciso, i Faces avevano un catalogo inarrivabile di pop song suonato con tutta l’energia e la forza di una rock’n’roll band e i riferimenti musicali rendono Joyland una specie di “series of dreams” dylaniana o una circus song springsteeniana. Il tema è chiaro fin dall’inizio e il tono è ben presto dettato dall’avvertenza che Jonesy riceve dal suo factotum, Fred Dean: “Qui improvvisiamo di più. Siamo ancora legati allo spirito delle fiere di un tempo. Forza, cerca di capire che cosa ne pensi. Anzi, meglio, che cosa provi”. E’ quello che chiede Stephen King mentre si entra in Joyland: di sentire qualcosa, più che di leggerlo. Per questo anche se comincia come una rock’n’roll fantasy e poi si sviluppa con la luce di un b-movie, con un gran finale che è a sua volta un cliché, va aggiunto che l’intenzione arriva intatta fino in fondo all’epilogo. A saldo di tutte le ironie possibili, è come bere una birra fresca nel giorno più caldo dell’estate ed è anche legittimo non chiedere di più. Ciò non toglie che piccoli valori come amicizia, lealtà, sincerità, generosità che a Joyland hanno un senso e nel resto del mondo sono stati dimenticati, per far spazio a una non inedita brutalità, riempiano di nostalgia la storia di Stephen King rendendola una favola moderna capace persino, en passant, di non dimenticare il sassofono di Clarence Clemons nelle battute conclusive. Tempo di lettura: una notte con temporale (obbligatorio), tuoni e fulmini compresi nel prezzo.

giovedì 22 agosto 2013

Chris Fuhrman

E’ l’estate del 1973 a Savannah, Georgia e Chris Fuhrman scrive di “un gruppo di adolescenti anarchici che combattevano l’ipocrisia, l’ingiustizia e le eterne stronzate” con un tatto particolare, persino una gentilezza, usando tutte le premure possibili per trattare la materia delicata e friabile di ricordi destinati a dissolversi. E’ il motivo principale per cui tutta la parte principale, e ben oltre la metà di Vite pericolose di bravi ragazzi scorre innocua, pratica ed essenziale. Anche un po’ sciatta, a dire la verità: Chris Fuhrman avvicenda piccoli episodi in miniature senza scossoni rilevanti, lasciandoli apparire in una modalità tiepida e lineare. Tra le tante deviazioni dalla rigida istruzione cattolica, la banda dei bravi ragazzi coltiva con grande passione l’arte dei fumetti e ne realizza uno colorito e blasfemo che viene intercettato dall’autorità scolastica, poco incline all’interpretazione creativa dei sacri profili. Il giudizio e l’eventuale punizione gravano come una spada di Damocle su di loro e, mentre si dedicano ad altrettanti guai perché “il problema della vita è che quando non sei nei casini è noiosa”, hanno un’illuminazione eversiva. Durante una gita scolastica, notano le vistose caratteristiche di un puma in cattività e progettano un piano per sequestrarlo e liberarlo nella scuola in modo da creare un caso più grande da far dimenticare quello del fumetto. Il rammendo è peggio dello strappo sia perché l’impresa è ad alto rischio, sia perché l’effetto è tutt’altro che prevedibile, eppure nessuno tra Francis, Rusty, Tim, Joey e Wade se ne cura dato che “le cose che vivono nella mente sono vere come tutte le altre”. Il principale promotore di questa attitudine è proprio Tim, lo spirito più fervido e genialoide del gruppo, a sua volta alter ego del protagonista, Francis, che lo dipinge così: “Ogni giorno Tim Sullivan incendiava il mondo, e dopo vivevi nei luoghi che avevano resistito all’incendio, quelli abbastanza forti da costituire dei punti di partenza. Era bellissimo. Scoprivi che potevi anche pensare”. A maggior ragione visto che le Vite pericolose di bravi ragazzi sono immerse e circoscritte dagli elementi fantastici della religione cattolica e dalla concreta realtà delle tensioni razziali che serpeggiano sullo sfondo. I chierichetti saltano la scuola, provano l’ebbrezza del primo bacio e bevono ascoltando Elton John oppure spaccano tutto (come capita a Tim: “Oh. Niente. Mi annoiavo. Ho preso l’ascia e ho abbattuto un palo della luce. Ci è voluto un attimo”) e si azzuffano e la vita nella scuola così come in città trascorre in modo più o meno ordinato e il tono di Chris Fuhrman sembra rispecchiarlo senza troppe ambizioni. Il finale è una frustata che riporta in modo brusco alla realtà: un risveglio durissimo che proietta alla velocità della luce le Vite pericolose di bravi ragazzi nell’età adulta, dove oltre alla noia, dovranno rendere conto al dolore. Lo si legge nella firma di Chris Fuhrman: è il suo primo e unico romanzo, visto che se ne è andato a poco più di trent’anni, finendo le ultime, fragilissime pagine. 

venerdì 16 agosto 2013

Mark Twain

Il presupposto di questa irriverente corrispondenza è nel più puro spirito di Mark Twain: provocatorio, ironico e geniale. Chi scrive e spedisce le Lettere dalla terra è nientepocomenodiche l’arcangelo Satana in persona, appena cacciato dai lidi divini e non ancora destinato alla sua principesca posizione negli inferi. Quest’ambiguità, la terra come una sorta di limbo dove le differenze tra bene e male sono sospese in attesa di giudizio, dovrebbe già suggerire più di una cautela nell’accostarsi alle iperboli di Mark Twain, spesso sprezzanti ed eretiche. Non è un mistero che le Lettere dalla terra abbiano trovato una forma pubblica solo a mezzo secolo dalla sua scomparsa perché “chi vi dimora, nella tomba, ha un privilegio che non è esercitato da nessun’altra persona vivente: la libertà di parola” e se per l’ultimo sberleffo getta nella mischia dèi o demoni, è solo per sottolineare che  “l’uomo è senza dubbio lo stupido più interessante che ci sia. E anche il più eccentrico” ed è capace di rovinarsi benissimo da solo. Cercare a tutti i costi nelle Lettere dalla terra un appiglio per un confronto teologico o scientifico vuol dire perdere gran parte della bizzarra spontaneità con cui Mark Twain prova a districarsi tra “coraggio, viltà, ferocia, gentilezza, onestà, giustizia, astuzia, slealtà, magnanimità, crudeltà, cattiveria, malignità, lussuria, pietà, misericordia, purezza, egoismo, dolcezza, onore, amore, odio, meschinità, nobiltà, lealtà, falsità, sincerità, disonestà”, ovvero vizi e virtù dell’essere umano. Al di là della mefistofelica natura del suo provvisorio alter ego, la ricognizione terrestre frutta un epistolario incerto, contraddittorio ed enigmatico sulla vita di uomini e donne e sul loro rapporto con le religioni e le divinità. Alcune constatazioni sono lapalissiane, anche se la verve di Mark Twain, le rende sempre brillanti. Ecco una particolarissima recensione del paradiso, agognata meta di tutti le fedi da cui l’uomo ha escluso “il più grande di tutti i suoi piaceri, l’estasi che occupa il primo e più importante posto nel cuore di ogni individuo della sua, e della nostra razza: il sesso!”, e non si comprendono fino in fondo le dimensioni di questa lacuna. Salvo ricordare, come fanno spesso le Lettere dalla terra, che si tratta di piccoli argomenti umani ed “è raro che da un semplice fatto l’uomo riesca ad arrivare a conclusioni corrette. Non può farci niente; è così che funziona quel caos che lui chiama mente”. Può essere anche che le Lettere dalla terra siano solo un divertissment, un’ultima mina vagante di uno scrittore acuto e caustico, ma quando Mark Twain scrive che “l’essere umano è una macchina. Una macchina automatica. E’ fatta di migliaia di meccanismi complessi e delicati, che svolgono le loro funzioni armoniosamente e secondo le leggi deputate al loro governo e sulle quali l’uomo non ha autorità, dominio o controllo” spedisce un messaggio semplice, lineare, preciso. Siamo qualcosa di speciale, e lo dice con un tale leggerezza da renderlo verosimile.

mercoledì 14 agosto 2013

A. M. Homes

Compare anche Bob Dylan, più scontroso che mai, in una scena di Questo libro ti salverà la vita. E’ solo l’ombra di un mattino, davanti all’oceano eppure è una presenza tanto evanescente quanto regale in una moltitudine di anime e una lunga teoria di eventi picareschi, surreali e del tutto casuali. Almeno in apparenza perché sono connessi tra loro da un’invisibile e sotterranea logica di intrecci che ricalcano l’impossibile architettura di Los Angeles dove “tutto è a breve termine” e il “il punto è sempre la provvisorietà”. Succedono un sacco di cose in Questo libro ti salverà la vita.  e nonostante tutto è come se non succedesse nulla perché il palcoscenico è una città multiforme, un’epidemia di luci che nascondono altrettante solitudini. E’ quella Los Angeles che A. M. Homes descrive così: “Sopra e sotto, una catena di case si arrampica sulla parete del canyon: una catena sociale, una catena economica, una catena alimentare. Lo scopo è stare sulla vetta, essere il re della collina, vincere. Ognuno guarda chi viene dopo dall’alto in basso, pensando di essere in qualche modo meglio piazzato, ma c’è sempre qualcun altro che spinge da sotto o che, a sua volta, guarda dall’alto in basso da sopra. Non c’è modo di vincere”. Il lavoro che fa Richard Novak, il protagonista di Questo libro ti salverà la vita, una specie di uomo senza qualità con una mansion on the hill ricca e vuota, ne è la migliore espressione: “Cavalca l’onda del mercato, gioca al rialzo, scommette al ribasso. Pensa alle cose che sa, la fonte delle sue informazioni, questo mondo di possibilità, futuri, racconti, storie”. Il resto del suo tempo lo dedica a raccogliere i frammenti di una vita, la sua, che si annoda a quella di un’accolita disordinata di incontri. Ci vuole un pensiero fuzzy o nella più semplice delle ipotesi una percezione quasi onirica per addentrarsi nella trama di Questo libro ti salverà la vita, ed è normale perché i romanzi di A. M. Homes procedono in modo molto simile, per accumulazione, per stratificazione, un concatenarsi di storie che si incastrano una nell’altra. Sempre in bilico tra una tensione sarcastica, se non proprio cinica, e un’apertura di credito che somiglia da vicino a una visione compassionevole della letteratura. Questo libro ti salverà la vita  in particolare suggella quella che è diventata la cifra stilistica di A. M. Homes che inseguendo le strambe evoluzioni di Richard Novak prima afferma lapidaria che “gli americani provano la vita spirituale di altri come se non ne avessero una loro”, una sentenza che apre le porte a una serie infinita di riflessioni e poi concede che “anche se fra loro c’è una distanza enorme e probabilmente incolmabile, c’è anche un senso di unione, la consapevolezza di essere gli uni per gli altri, per quel tanto che possono sopportare e, anche se forse non è la pienezza che si auspicherebbe, anche se forse non è abbastanza, è già qualcosa”, ed è forse per quello che si finisce per affezionarsi ai suoi stralunati personaggi. 

sabato 10 agosto 2013

Dana Spiotta

Le Versioni di me di Dana Spiotta intrecciano tre onde sinuosidali: una storia famigliare tenuta insieme da filamenti invisibili che corrono per la maggior parte attraverso legami digitali; il culto della personalità di Nik Worth; il flusso di coscienza e il rapporto con le distorsioni (televisive) della realtà di Denise. Una miscela dal potenziale esplosivo, in gran parte inespresso. Non c’è dubbio che Dana Spiotta abbia le capacità di inquadrare i personaggi e le loro complesse psicologie: la scrittura compulsiva di Versioni di me ha un gran ritmo e una sua intensità ed è un tratto che non si perde nel corso del romanzo. E’ la storia in sé, la trama, qualche particolare e altrettanti luoghi comuni a sovrapporsi in modo poco armonico, a volte persino cacofonico. Forse è voluto nel confronto con gli eventi storici, per redenre quella sensazione di impotenza e di strazio perché come dice Denise “nessuno ti consola per quel che hai visto al telegiornale”. Rimane molto vaga nel resto compresa l’alternanza di voci e di persone, come se le vicende e i legami della famiglia di Nik Worth siano ancora tutti da scrivere e le convergenze parallele finiscano in un deserto emotivo ben rappresentato dalla voce di Denise: “Io provo pena per tutti quegli adulti compromessi, iniettati di sangue e colpevoli e che poi raccontano la storia ai loro amici, senza esser davvero onesti sul ruolo che ha avuto ciascuno di loro nello sviluppo della vicenda. Sono solo alla fine del primo giorno dell’anno e sono già esaurita e sconfitta”. Fin qui può essere, anche se Versioni di me arranca. La curva più evanescente rimane proprio quella di Nik Worth. “Il seminario dei luoghi comuni” in versione rock’n’roll parte dal cliché del musicista ritirato e incompreso (come tutti), ricalcato su Bucky Wunderlick di Don DeLillo in Great Jones Street a sua volta ricavato dall’enigma irrisolto della personalità di Bob Dylan (con una punta di Leonard Coen). Molto pruriginoso e solleticante, ma ha sempre qualcosa che scivola via in superficie ed è impalpabile come è sfuggente Nik Worth: è tutto fake, miraggio, abbaglio e se fin qui c’è una concorrenza con la realtà dello stardom system e dei fallimenti dell’industria discografica, l’insistenza di Dana Spiotta sulla nota falsa è sospetta e incide in qualche modo sulla natura stessa di Versioni di me. Nik Worth può anche essere una parodia, e ci sta. Bisogna però dire che la padronanza di certi linguaggi, la capacità di cogliere l’atmosfera, l’umore, lo spirito del tempo dipendono anche da piccoli segnali ineluttabili. Per dire: le rock’n’roll band di Nik Worth, i Fakes (un’ossessione) e i Demonics arrivano tra il 1979 e il 1980 a Los Angeles ed è la Los Angeles degli X, e gli X non ci sono. Sarà un caso, ma se, parafrasando Dana Spiotta, non vogliamo considerare il rock’n’roll, “una piccola, esile esperienza che ti costa molto più di quanto non dovrebbe”, non è un dettaglio da poco. E’ come atterrare a Londra nel 1977 e non trovare i Sex Pistols e/o i Clash e persino Nik Worth sa benissimo cosa vuol dire.

giovedì 8 agosto 2013

William T. Vollmann

Anche a un passo dall’apocalisse, William T. Vollmann sa essere pungente, ironico, amaro e nello stesso tempo preciso, dettagliato, nitido. All’indomani del terremoto e dello tsunami che hanno sconvolto la costa orientale del Giappone, i reattori danneggiati della centrale nucleare di Fukushima cominciavano a emettere radiottività in misure significative. Con l’intenzione di affrontare “una storia di cose che quasi non riusciamo a credere, tantomento a comprendere”, William T. Vollmann non esita ad affrontare il viaggio verso la Zona proibita, munito solo di un minuscolo dosimetro (lo strumento per misurare la radioattività, e come se lo procura è già una storia a sé a partire dallo scoppietante incipit), di alcune rudimentali protezioni e di un paio di pesanti handicap. Il primo è la lingua, a cui supplisce con l’inevitabile interprete e una concreta dose di umiltà. Il secondo è che, essendo americano, si porta dietro il rimorso storico di aver inaugurato, proprio in Giappone, l’era (e la paura) atomica. Nel “picaresco vagabondare di un dosimetro”, come lo chiama William T. Vollmann, si intuisce subito che la condivisione delle responsabilità è limitata, se non proprio impossibile perché “la sbalorditiva capacità delle autorità giapponesi di non dire assolutamente nulla è pari solo all’assurdo grado di fiducia che l’opinione pubblica ripone in esse; mentre la cinica diffidenza dell’elettorato americano fa il paio con la compiaciuta e, talvolta, spudorata disonestà delle corrispettive autorità”. Questa è la prima distinzione, la più urgente, che delinea la Zona proibita, poi il breve ed essenziale saggio spiega con frasi dai contorni chirurgici che le certezze atomiche si reggono sulla casualità e sull’indeterminatezza dei tempi di smaltimento dei residui. Le centrali sono costruite al massimo grado possibile di sicurezza, ma poi c’è sempre la possibilità di un evento di “classe nove”, come lo chiamano le autorità giapponesi, ed è l’imprevedibile che genera mostruosità come Three Mile Island, Chernobyl e, appunto, Fukushima. D’altra parte, come fa notare William T. Vollmann, “le scorie nucleari radioattive devono essere immagazzinate e custodite per periodi che eccedono in maniera esorbitante la cornice di riferimento di qualunque civiltà”. A quel punto il viaggio verso la Zona proibita si ferma: il dosimetro comincia a mandare segnali d’allarme, al silenzio delle macerie non si può aggiungere altro e la conclusione di William T. Vollmann è lapidaria: “Se l’interesse presente ci chiede di consumare quantità sempre crescenti di energia, qualunque modo pericoloso per produrre energia può essere accettato come necessario. Sul piano pratico, un cittadino giapponese (o americano) non ha il potere di impedire la costruzione di centrali nucleari. Leggendo questa storia, però, provate a pensare a quante altre volte vorreste assistere al disastro del reattore di Fukushima. Se doveste voler venire dalla mia parte, considerate di collocarvi sopravento”. Molto acuto.

mercoledì 7 agosto 2013

Max Gordon

Lenny Bruce, Woody Guthrie, Charlie Parker, Miles Davis, Woody Allen, Charlie Mingus e Sonny Rollins: “io conosco tutti, a cominciare dai poeti” diceva Max Gordon, deus ex machina del Village Vanguard, meta ambita e temuta della vita notturna di New York, che viene raccontata a partire dagli inizi pionieristici, senza un dollaro, senza una licenza e con tanto coraggio da rasentare l’incoscienza. Come quella che Max Gordon usò, una volta trascinato davanti a un giudice perché qualcuno aveva ritenuto osceni i versi elevati nei primissimi tempi al Vanguard: “Vostro onore, quello che abbiamo presentato non era intrattenimento. Era recitazione, declamazione, salmodia di poesie tra poeti”. E’ vero, non è stato (solo) entertainment: il Vanguard è stato un luogo fondamentale per la cultura americana nella seconda metà del ventesimo secolo e poco importa che fosse uno scantinato in fondo a una ripida rampa di scale e lo dice anche Nat Hentoff: “Il Vanguard di Max (Gordon) è un locale particolare che ha resistito così a lungo grazie, appunto, alla passione. Quella del pubblico, quella degli artisti, e quella dell’uomo sempre attento che guardava verso la scala per dare il benvenuto, nel suo modo così poco espansivo, a ciascuno dei nuovi viaggiatori della sera accogliendoli alla luce dell’improvvisazione”. Il memoir di Max Gordon ha lo stesso appeal: lo stile è generoso, immediato, senza fronzoli e senza velleità, semplice ed efficace nel ricostruire l’atmosfera irripetibile di una realtà che “a poco a poco acquista una vita propria. Tu l’hai avviato, ci hai messo le tue idee, le speranze, i sogni. E’ la tua creatura, ma ora è cresciuta e vive per conto suo, ed è meglio che tu te ne renda conto”. Dalle figure emblematiche delle strade del Village, il principe bohémien Joe Gould su tutti, agli anni furiosi e bollenti dei grandi jazzisti, Max Gordon ha un ritratto singolare per tutti, dallo sguattero a Dinah Washington, e se i toni sono sbrigativi ed efficaci, in linea con il personaggio, non mancano mai di ruvide affettuosità. Persino nelle didascalie del reportage fotografico che fa da spartiacque nella storia del Vanguard perché così Max Gordon descrive uno scatto di Bill Evans: “La prima volta che Bill Evans si esibì al Vanguard, venticinque anni fa, suonava il pianoforte durante gli intervalli fra i set del Modern Jazz Quartet. Mentre suonavano i quattro gli spettatori, che erano venuti per sentire loro, stavano zitti e attenti. Quando subentò Bill (Evans), si diffuse per tutta la sala un chiacchiericcio insistente. Chi diavolo era Bill Evans? Nessuno l’aveva mai sentito nominare. Era uno che faceva da tappabuchi durante le pause dei grandi del Quartet. Oggi anche Bill (Evans) è un grande. Suona al Vanguard quattro, cinque volte l’anno. E quando suona lui, nessuno chiacchiera più; il Vanguard sembra una chiesa”. Se non vi bastano i ricordi di Max Gordon, provate con The Complete Village Vanguard Recordings, 1961 straordinaria, unica celebrazione di Bill Evans (con Scott LaFaro e Paul Motian).

venerdì 2 agosto 2013

Jim Harrison

L’esordio di Jim Harrison è la celebrazione eccessiva di tutto ciò che sarà poi la sua carriera. Il trionfo di una scrittura annodata alla vita, generosa ed entusiasta, romantica e passionale. “Amo la sostanza della storia” dice Swanson, il protagonista di Lupo, e sarà vero da qui (siamo nel 1971) in poi, perché il romanzo non ha una sua trama vera e propria, almeno nel senso tradizionale, ed è tutto concentrato sulla figura di Swanson, alter ego la cui identità collima in gran parte con quella dello stesso Jim Harrison. E’ volitivo, ingordo, curioso, eccessivo. Basta leggere il suo complicato rimedio per il raffreddore (che va bene anche senza raffreddore) per rendersi conto della natura del personaggio e del suo autore che già si segnala per una presa di posizione decisa e concreta: “Ma al diavolo droghe e alcol. Il mio cervello si espande da sé e vede già abbastanza fantasmi. Da anni ormai ho scoperto che la terra ne è infestata. Animali di forme non animalesche imperversano in grovigli indefinibili. Li chiamano governi. Ferite che non guariscono mai, inferte ovunque e nascoste dal tessuto cicatriziale della nostra presenza viva. Questione fondamentale: non voglio vivere sulla terra ma voglio vivere”. Da Boston a San Francisco il lungo guado americano di Swanson è un rifiuto monolitico di una provvisorietà e di un’angoscia che sono molto cool e a cui Jim Harrison risponde in modo viscerale, forse ingenuo, di sicuro sincero: “Ho perso la fede, pensai, nel cercare di capire le cose, le varie voci che ogni giorno, nella mia scatola cranica, parlavano di alternative, contromanovre, divisioni, istruzioni, indicazioni. Tutte le voluttà interiori di linguaggio e stile. E vivo la vita di un animale e trasfiguro le mie infanzie, al plurale perché non faccio che ripetere senza mai passare oltre, un circolo vizioso piuttosto che una spirale”. Tutti temi e argomenti che appariranno con frequenza regolare in seguito, magari in chiave meno autobiografica, comprese le tracce che Jim Harrison dissemina rimescolando le sue letture (Steinbeck, Keats, Rimbaud, Dostoevskij, Thoreau, Miller: roba forte) e le sue influenze popolari, riconoscendo tra l’altro l’immaginifica forza della Thunder Road di Robert Mitchum, qualche anno prima di Bruce Springsteen e di Born To Run. La coincidenza non è casuale perché Swanson alias Jim Harrison scriveva:  “Dopo, ma nemmeno tanto dopo, uno avverte orribilmente la mancanza di questo senso della vita. Del tutto assente quando non siamo che ghiandole collegate a un piccolo cervello animalesco. Amare come se fossimo creature immaginarie, pure, geometriche, diamanti da osservare attraverso molte limpide sfaccettature, ma pur sempre umane; la gola si stringe, le ghiandole lacrimali hanno il sopravvento, il mondo è di nuovo tangibile e fresco, e noi ci ricaschiamo ancora e ancora, inseguendo ostinatamente un sogno bello ma insensato”. Tra le righe (ma nemmeno tanto, nel finale) sembra il prologo di Un buon giorno per morire. La strada è lì che aspetta.