domenica 30 settembre 2012

Thomas McGuane

Già nel suo nome Irving Berlin Pickett contiene l’essenza tutta americana di Correndo sul filo, quella sensazione in gran parte sconosciuta e poco assimilata, di essere in bilico fotografata tra gli altri da Don DeLillo in Falling Man e da Colum McCann in Questo bacio vada al mondo intero e, per altri versi, da Richard Ford in Lo stato delle cose. Thomas McGuane ci mette del suo nel leggere l’America dopo l’11 settembre, “una di quelle alterazioni che cambiano la nostra visione della vita”. Irving Berling, come è noto, è l’autore dell’inno nazionale americano, God Bless America, che è stato anche il primo pensiero, il più spontaneo e il più diffuso, quando dalle macerie delle Twin Towers è emersa la percezione di essere “governati dalle delusioni collettive della comunità”. Dal punto di vista di Thomas McGuane e del suo alter ego in Correndo sul filo, una visione tutt’altro che apocalittica: “L’attacco a New York era molto simile a una morte in famiglia. Una morte in famiglia raramente viene vissuta come un evento. Viene vissuta come un cambio di stagione, come la fine dell’estate, o un’ondata di maltempo. Una morte in famiglia ci avvicina di più alla morte. La religione non ha reso la morte meno minacciosa: resta un mondo in cui preferiamo non inoltrarci”. Essendo medico Irving Berlin Pickett conosce la delicata fragilità degli esseri umani e ha capito che “da allora sembra abbiamo perso uno strato di pelle” solo che non ha voluto cedere nulla della sua spontaneità. Essendo stato iniziato molto presto al linguaggio primordiale e istintivo del sesso, mantiene una sensibilità selvatica che lo rende unasorta di Forrest Gump visto che per sua stessa ammissione si definisce “uno strano miscuglio di competenza e imbecillità. Fin dall’infanzia molte cose mi avevano insegnato che essere imbecilli è un modo estremamente efficace per sfangarla in America”. La definizione spiega molto, se non tutto, di Correndo sul filo ed è mpossibile non nutrire un’epidermica simpatia per questo protagonista “irritabile, ipercritico, ossessivamente ordinato, claustrofobico, impaziente, asociale e agorafobico, pieno di paure immotivate, pessimista e pedante”. L’autoritratto serve a introdursi nella sequenza infinita di personaggi che popolano Correndo sul filo: Irving Berlin Pickett è capace di riunire in una piccola smalltown tutta una popolazione di uomini e donne in cerca di un’identità o soltanto di un posto dove stare e quella volubile gamma di incontri e scontri lo porterà alla conclusione che “non serve un accidenti di niente trovare difetti nella natura umana, tanto prima o poi li trovi in te stesso”. Rocambolesco, eccessivo, ironico e divertente Correndo sul filo è anche disordinato e ripetitivo in alcuni frangenti, come se Thomas McGuane stesso non fosse riuscito a tenere il passo delle acrobazie e delle evoluzioni del suo personaggio e della caleidoscopica accolita, ma resta comunque una bella riflessione sulle mutevoli forme della fede, del sesso, dell’amore, dell’amicizia, di quello che serve per vivere.

venerdì 28 settembre 2012

Jack Kerouac

Quando Jack Kerouac accetta di trascorrere nove settimane come osservatore degli incendi per il servizio forestale a Desolation Peak, nello stato di Washington e poco lontano dal confine con il Canada, vaneggia un solitudine zen, sobria, profonda, in grado di comprendere e accettare che la felicità è “sapere che a conti fatti nulla importa”. La dimensione di Angeli di desolazione, almeno nella prima parte, è quella dell’immobilità, della contemplazione, della wilderness, dell’introspezione e di un vasto mondo mentale che Kerouac lascia scorrere come una specie di flusso di coscienza inarrestabile attraverso le cavità di un sassofono. Alla monastica e ascetica meditazione zen subentra la constatazione che “viviamo per desiderare”, ed è così che comincia la reazione a catena delle contraddizioni di Jack Kerouac. L’eterno dilemma di essere in un luogo e di pensarne un altro, di rimanere “into the wild” e agognare le città e le metropoli, di restare solo in cerca del silenzio e della pace e di ambire al mondo intero. Quando è lassù a dialogare con la neve, le cime delle montagne e gli orsi che non riesce a vedere vorrebbe scendere e andare a caccia di vita: “L’unica cosa da fare è attendere 30 lunghi giorni prima scendere dalle rupi e assaporare di nuovo la dolce vita sapendo che non è né dolce né amara ma solo quel che è e così è”. Una volta ripresa la strada delle luci, della musica, degli amici, Jack Duluoz alias Jack Kerouac si ritrova disorientato: “E ora che sono tornato in questo stramaledetto film del mondo, ora che me ne faccio?”. La sua è “un’immensa epica inconcludente” e la costruzione stessa di Angeli di desolazione è frammentaria e composita, eppure pur essendo un canovaccio disordinato anticipa tutti i temi e le ossessioni che poi farà proprie. Angeli di desolazione è un vaso di Pandora da cui erutterà Sulla strada ed è popolato dal dottor Sax, da Maggie Cassidy e da Tristessa, dai vagabondi del Dharma e dal blues di Mexico City e tutti i personaggi e gli interpreti della Beat Generation nascosti dietro altrettanti alias. Di concreto c’è il suo, di autoritratto: “Ho 34 anni, aspetto normale, ma per via dei jeans e l’abbigliamento strambo la gente si spaventa a guardarmi perché davvero ho l’aria di un matto scappato dal manicomio con sufficiente forza fisica e un innato senso di adattamento da cavarmela al di fuori di un istituto, da nutrirmi e andare di luogo in luogo in un mondo che si fa di giorno in giorno più stretto in fatto di opinioni sull’eccentricità. Attraversando dei paesi nel centro dell’America mi sentivo guardato come se fossi un fantasma. Ero deciso a vivere a modo mio”. Questo è il vero lascito di Angeli di desolazione, a parte il fascino del corpo a corpo di Jack Kerouac con se stesso e con il monte Ozomeen: il coraggio di ritagliarsi parola per parola, frase dopo frase, uno spazio unico e singolare. Una visione irripetibile, con l’eccezione (meravigliosa) di Dylan che, non a caso, con Desolation Row scriverà il vero finale di Angeli di desolazione

giovedì 27 settembre 2012

William Langewiesche

Quello che ogni volta sorprende, con William Langewiesche, è sempre la sua scrittura: essenziale, limpida e precisa. Anche per spiegare un fenomeno complesso come il volo, William Langewiesche usa frasi ridotte al minimo indispensabile, molti esempi, semplici metafore, case history che durano nei casi più eclatanti una pagina intera. Lo svolgimento del discorso è sciolto con un facilità estrema: a tratti si ha l’impressione che potrebbe scrivere di qualsiasi argomento (come in effetti fa) perché è comunque più interessato alla forma, alla sua presentazione, per non dire al lettore, piuttosto che al contenuto in sé. In realtà la chiarezza del suo stile collima alla perfezione con le esigenze, spesso caotiche, dei temi che tratta. Non è uno scrittore che cerca costruzioni immaginifiche o soluzioni spettacolari: la sua natura, il suo stesso mestiere di reporter, lo portano a stringere e a focalizzare sull’obiettivo, per cui se deve spiegare qualcosa lo fa pulendo e asciugando, come se volesse rendersi il più trasparente possibile. La virata, più che in altre occasioni, è la testimonianza di questo savoir faire, un po’ perché William Langewiesche attinge a fonti autobiografiche e famigliari (proviene da una famiglia di piloti e lui stesso è stato istruttore di volo) e un po’ perché stare con la testa tra le nuvole è un’arte più che una missione. La virata segue una rapida sintesi della storia del volo e già nella battute iniziali, William Langewiesche celebra un mistero affascinante e impenetrabile: “L’aereo è un mezzo talmente semplice che a volte viene da pensare che sia stato scoperto, anziché inventato. Il profilo dell’ala è una delle forme più perfette che esistano in natura. E la nostra specie ha imparato a servirsene molto prima di coglierne anche solo le caratteristiche di base”. Poi, ricordando le difficoltà implicite nel governare un aereo, a partire dall’orientamento in un’era in cui gli strumenti di bordo erano rarefatti o del tutto inesistenti, racconta con una serie di aneddoti le delicate questioni legate al volo. Molto interessante il calembour legato alla prima applicazione militare del volo, durante la prima guerra mondiale: “I piloti tedeschi chiamavano le condizioni ottimali, in cui si volava, tempo da aviazione, e quelle avverse, tempo da aviatore, nel senso che si poteva rimanere a letto, anche perché, grazie a un circolo virtuoso, volare senza vedere nulla non aveva senso”. Poi sarebbe arrivata l’era in cui si può volare con ogni tempo e William Langewiesche dice che “La vera storia del volo umano è tutta qui. I fratelli Montgolfier ci hanno regalato il pallone, introducendoci al singolare egotismo del volo. I fratelli Wright ci hanno dato le ali, mettendoci di fronte all’enigma della virata”. L’unica precisazione, un piccolo dettaglio scientifico che a William Langewiesche sfugge nella foga dell’incipit, è che sarebbe pù corretto definire l’aria come un fluido, e non un gas, perché se non fosse così non solo non esisterebbe La virata, ma non volerebbe niente e nessuno.

domenica 23 settembre 2012

David Foster Wallace

Nelle “trincee quotidiane” di David Foster Wallace le sue pulsazioni linguistiche sono strumenti di difesa che s’inerpicano sull’essenza della parola, moltiplicando l’effetto delle provocazioni, delle sollecitazioni e delle piccole e continue esplosioni che costituiscono l’andamento sincopato della sua scrittura. Pur condividendo una provenienza piuttosto eterogenea, i racconti di Questa è l’acqua possono essere un’utile introduzione alla complessità della scrittura e in definitiva della visione del mondo di David Foster Wallace. Le sue costruzioni narrative seguono un caos organizzato secondo coordinate invisibili, come se cercasse l’origine della specie in una qualche geometria del linguaggio: “Guardi da una sola angolazione: le cose sembrano senza meta, disordinate. Modifichi l’angolazione: illuminazione. Schema. Ordine”. La sorpresa è sempre dietro l’angolo, sia nell’angoscia esistenziale e poi nella malattia raccontate in Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, sia nella pirotecnica lettura dell’adolescenza in Ordine e fluttuazione a Northampton. Anche un frammento di quattro pagine come Altra matematica è l’occasione per mettere nella centrifuga della narrativa, della visione di David Foster Wallace, una spirale di parole tenute insieme da una tensione sotterranea, così come Solomon Silverfish è la quintessenza della scrittura di DFW: esuberante, eccessiva, florida e frenetica nello stesso tempo come “l’intermittenza stroboscopica che precede i sogni”. David Foster Wallace non è mai accomodante e si rivela, se non proprio moralista, almeno cosciente della necessità di una scelta e della sua consapevolezza perché la scrittura, la lettura, la cultura servono ad avere “la facoltà di scegliere a cosa pensare”. In quello che diventa una specie di commiato, lo spiega meglio così: “Imparare a pensare di fatto significa imparare a esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza”. C’è un collegamento diretto tra l’impianto delle parole sulla pagina scritta e la fluttuazione dei pensieri e la piccola selezione di Questa è l’acqua serve a identificarlo e a capirne l’utilità: “Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la libertà. Questo è imparare a pensare”. Diceva Don DeLillo nella sua elegia, qui posta come prefazione: “Possiamo immaginare i suoi testi narrativi e i suoi saggi come stralci di rotoli da un lontano futuro. L’opera la conosciamo già come notizia di prima mano: dallo scrittore al lettore, intimamente, ossessivamente. Lui non ha incanalato le sue doti entro schemi più angusti. Voleva reggere l’urto della vasta, farneticante, ingovernabile onda della cultura contemporanea”. Come scrittore non c’è dubbio che ce l’abbia fatta; come persona, è andata come è andata.

mercoledì 19 settembre 2012

T. C. Boyle

Una stramba creatura appare nelle foreste francesi pochi anni dopo la rivoluzione. E’ un piccolo essere umano non troppo umano e suscita sorpresa, sgomento, disorientamento nei villaggi che si trova ad attraversare. Incapace di andare oltre le strette necessità primordiali (il cibo, prima di tutto), una volta catturato, Il ragazzo selvaggio diventa prima un fenomeno da studiare e poi un cittadino da rieducare, non tanto per il suo benessere quanto per ristabilire la correttezza delle distanze tra la civiltà e la natura, tra l’ordine e il caos. L’epicentro del romanzo sembra trovare le sue coordinate ideali nelle parole che Jean-Jacques Rosseau scriveva nelle prime pagine dell’Emilio: “L’uomo naturale è un’entità del tutto a sé stante, è l’intero assoluto che ha rapporto solo con se stesso o con suo simile. L’uomo civile non è che un’unità frazionaria condizionata dal denominatore e il cui valore risiede nel rapporto con l’intero, che è il corpo sociale. Le buone istituzioni sociali sono quelle che meglio riescono a snaturare l’uomo, a privarlo della sua esistenza assoluta per conferirgliene una relativa, a inserire l’io nell’unità comune, di guisa che ogni singolo individuo non senta più se stesso come unità, ma come parte dell’unità, e non abbia rilevanza alcuna se non nel tutto in cui è assorbito”. Si capisce che Il ragazzo selvaggio è una mina vagante per il nuovo ordine sociale: la sua è un’identità che è situata da qualche parte tra l’innocenza, la crudeltà del mondo animale e il destino di un’umanità evoluta nelle forme di pensiero o di convivenza, o almeno così sembra perché all’epoca della rivoluzione francese, lo strumento più innovativo era la ghigliottina. Il problema è che Victor, questo il nome che Il ragazzo selvaggio si ritrova a sua insaputa, si rifiuta di parlare e di apprendere e quando, dopo interminabili fatiche, il dottor Itard riesce a fargli pronunciare alcuni suoni gutturali e (almeno) a riconoscere qualche oggetto e ad associarlo ad altrettanti nomi, è troppo tardi. Il tema a suo modo è un classico e T. C. Boyle lo affronta con circospezione, come se fosse lui Il ragazzo selvaggio che entra di nascosto nelle stanze riservate della letteratura: è il capolavoro di una scrittura per sottrazione, che pur essendo minuziosa e scrupolosa nella forma, lascia in sospeso un’infinità di temi. Sono spazi aperti e selvaggi per il lettore, ma non indefiniti perché all’essenzialità di T. C. Boyle corrisponde altrettanta precisione. Si spiega solo così perché Il ragazzo selvaggio rimane confinato nel ristretto ambito delle cento pagine: dalla sua riflessione sul linguaggio (o meglio sulla sua mancanza così come è di normale condivisione, parlato e/o scritto), T. C. Boyle apre una lunga serie di crepe sulle certezze dell’ordine costituito dall’istruzione in poi e sembra accostarsi piuttosto a “quella attitudine alla pietà”, come la chiamava Claude Lévi-Strauss, che dovrebbe essere il minimo comun denominatore per tutti gli “esseri sofferenti” dell’umanità. Un piccolo libro per grandi pensieri.

mercoledì 12 settembre 2012

Howard Zinn

La Storia del popolo americano dal 1492 a oggi è un libro che andrebbe adottato nelle scuole, dai primi anni fino alla laurea, perché racconta la storia da un punto di vista insolito e profondo, ovvero partendo dal basso. “In genere nei libri di storia non si parla di rivolte” scrive Howard Zinn e non è difficile trovarsi d’accordo dato che tra generali, dittatori (“La tirannia è tirannia, non importa chi la esercita”), presidenti e condottieri le visioni correnti e istituzionali somigliano invece a una saga di personalissime ambizioni, il più delle volte con deviazioni nella follia e del delirio e comunque sempre molto “lontano dalla storia”. Storia del popolo americano dal 1492 a oggi cercava di bilanciare la prospettiva, dando voce anche agli outsider, al dissenso, a chi subisce decisioni e imposizioni incomprensibili, se non in funzione di altri interessi, non proprio pubblici. Sul metodo Howard Zinn è semplice e altrettanto radicale: “Sì, è una questione di onestà. Come dobbiamo essere onesti riguardo ai nostri errori personali per poterli correggere, allo stesso modo dobbiamo giudicare la politica di un paese”. Proprio per questo, per andare incontro alla necessità di un linguaggio educativo, indirizzato ai più giovani, Storia del popolo americano dal 1492 a oggi è diventato Vi racconto l’America. La metamorfosi ha portato Howard Zinn nell’epicentro delle sue scelte, asciugando ancora il suo stile e attenendosi sempre di più al suo mandato. Il linguaggio di Vi racconto l’America è lineare, semplice, popolare, diretto con un punto di vista preciso, per quanto non assoluto. E’ la decisione di raccontare gli eventi storici con estrema chiarezza l’atto più rilevante, da un punto di vista prima letterario e poi, volendo, politico. Una scrittura che è elementare e pop nello stesso tempo ha il limite congenito di essere assertiva, ma ha, da parte di Howard Zinn, il pregio di riunire molte voci, e non soltanto tratte da fonti popolari. Basterebbe la bella citazione di Archibald McLeish, scrittore che fu vicesegretario di stato durante il secondo conflitto mondiale: “Da come stanno andando le cose, la pace che faremo, la pace che sembriamo preparare, sarà una pace del petrolio, una pace dell’oro, una pace del traffico navale, in breve un pace senza alcuno scopo morale o interesse umano”. O quella di Dwight Eisenhower, comandante dell’esercito che quella guerra la vinse e poi presidente degli Stati Uniti d’America: “Ogni arma costruita, ogni nave da guerra varata, ogni missile che parte rappresenta un furto ai danni di chi è affamato e non viene nutrito, di chi ha freddo non sa come coprirsi”. Come storico, anche nella versione extra light di Vi racconto l’America, Howard Zinn non insegue una falsa (e inesistente) obiettività ed è sincero nel suo schierarsi: “I movimenti sociali del passato ci danno un’idea di come si possono comportare le persone se uniscono le forze per costruire una nuova società”. Facile, utile, istruttivo, con o senza l’originale Storia del popolo americano dal 1492 a oggi.

sabato 8 settembre 2012

Pete Fromm

Quando Pete Fromm, ancora studente di biologia, decide di trascorrere un intero inverno sulle Montagne, non lo fa per fuggire o per dimostrare qualcosa al mondo. Ha solo risposto a una proposta di lavoro. Le mansioni sono semplici: evitare che il ghiaccio impedisca lo scorrimento delle acque in un bacino di ripopolamento per salmoni. E’ il luogo in cui deve essere svolto che è estremo: a Indian Creek, le temperature glaciali mettono una seria ipoteca anche sul più banale gesto quotidiano. L’isolamento, scelto per “esplorare in solitudine, vedere quello che c’era senza una guida che mi dicesse cosa guardare, senza diventare parte di quella che consideravo una folla di cittadini ignoranti”, trasforma Pete Fromm, lo rende capace di stupirsi davanti a un branco di mufloni, di comprendere il silenzio, di seguire le tracce e i movimenti degli animali, di ascoltare lo sciogliersi del ghiaccio e di anticipare le variazioni climatiche. Anche nella lotta per la sopravvivenza, Pete Fromm s’inventa una rudimentale etica, dovendosi confrontare con animali più feroci, maestosi e in definitiva più affascinanti del genere umano. Il suo è un diario, denso, motivato e come sintetizza la quarta di copertina (una volta tanto utile e concreta) davvero “scevro di ogni ideologia”. La distinzione serve a collocare senza equivoci la scelta di Indian Creek che non è provocatoria, polemica o integralista. Per quanto perso in una wilderness impervia e scintillante, Pete Fromm ha un impiego, non nega il contatto umano (anzi) e sente ancora il richiamo della città. Il cuore pulsante di Indian Creek non è nelle condizioni, quanto piuttosto in quello che Pete Fromm sta cercando in quelle condizioni: “Qualunque cosa avessi scoperto, ero sicuro che sarebbe stato qualcosa che avrei potuto raccontare in seguito, una storia tutta mia”. La bellezza del racconto sta proprio nella sua genuinità o persino nell’ingenuità e conta soprattutto, come ha scritto Rick Bass, a sua volta autore di Un inverno nel Montana, “sull’integrità, sul vedere e sentire in modo intelligente e pulito”. Con la sua sincerità prima disarma il lettore, poi lo cattura: “Giravo ancora in tondo, fremendo sul mio piccolo trespolo, cercando di cogliere qualcosa che non c’era più, qualcosa che non avevo avuto il tempo di notare in quei pochi minuti troppo pieni, tentando di assorbire tutto quello che avevo visto per mesi, come se la seconda alba avesse rivelato più che delle semplici montagne”. E’ attraverso questo sguardo che si vede crescere Pete Fromm e con cui piano piano si possono assimilare e condividere i sussulti della natura, compresi i suoi estremi crudeli e pericolosi. Anche il finale, un semplice colpo di scena di una dozzina di righe, è un piccolo inno all’essenza della wilderness, nella vita e nella morte. Tutto, in Indian Creek, concorre a insegnare una libertà e una dignità che solo una vita libera e selvaggia possono mostrare, dalla severa e tagliente linea delle cime al volo di un aquila, dallo sguardo di una lince al gusto di camminare sprofondando nella neve che ci riporta a ciò che eravamo.

domenica 2 settembre 2012

Jay McInerney

Un idiota in cantina, il nome che aveva suggerito Jay McInerney per la sua rubrica di degustazioni, (qui raccolta per i posteri) avrebbe avuto più senso e non tanto perché sia offensivo o da intendersi come ignorante (che non lo è affatto, e questa è un’aggravante) ma quanto nell’etimologia propria del termine di chi non ha cariche pubbliche ed è lontano dalle scelte. Jay McInerney è rimasto intrappolato in una bolla di champagne, come se Le mille luci di New York non si fossero mai spente. E’ affascinante l’alterigia con cui affronta la scrittura disseminando in modo caotico i riferimenti colti, giusto per tenersi in equilibrio, e poi delimitando con brutale precisione una vita dove l’unica cosa capace di mandarlo è non trovare posto nel ristorante più à la page della sua città. Da una raccolta di articoli non si può pretendere di più e agli appassionati di vigne e vini I piaceri della cantina regalerà senza dubbio qualche motivo di soddisfazione o di risentimento, come è giusto che sia, perché i tema è, prima di tutto, soggettivo. La verità è che, anche entrando nello specifico, Jay McInerney sfiora appena l’elenco delle possibilità che con una certa spudoratezza sventaglia nell’introduzione. Quello che definisce “un argomento inesauribile, un viluppo di questioni che ci conduce, se decidiamo di approfondirlo, nei regni della geologia, della botanica, della meteorologia, della storia, dell’estetica e della letteratura” viene squadernato in un continuo sfoggio di celebrazione di una good life scintillante ed effervescente. Scivola sempre in superficie, prezzolato da importatori e distributori e addetti del marketing, sfiorando appena alcuni dei nodi filosofici e lirici che stanno in fondo a una bottiglia di vino. Per dire, viene da pensare cosa avrebbero scritto Hunter S. Thompson o David Foster Wallace di questo mondo bizzarro e affascinante di cui I piaceri della cantina coglie soltanto i pruriti, le apparenze, gli assaggi. Jay McInerney non solo è incastrato nel suo personaggio, come se non ci fosse altra vita fuori da New York e dal suo inner circle. Rimane ai margini anche quando potrebbe usare gli strumenti della letteratura (che non gli mancano) per raggiungere l’ebbrezza e per dare al lettore quelle indispensabili sollecitazioni, che si parli di vino o d’altro poco conta. Si limita invece a qualche citazione, troppo disparate per avere un senso e si diletta un po’ a fare il critico e l’enologo e molto di più a interpretare il ruolo del bon vivant. E’ questa la parte che gli riesce meglio, e va bene: è il tono che è sempre superlativo, è lo stile autoindulgente, è la forma che è ripetitiva. L’attenuante del ridotto standard della rubrica da cui arriva I piaceri della cucina potrebbe valere fino a un certo punto: pur nel florilegio di espressioni colte e raffinate di cui Jay McInerney fa sfoggio (fin troppo), il fraseggio e persino la scelta dei vocaboli sono limitati e annoiati. Stuzzicante, all’inizio, poi evanescente e infine con un retrogusto amaro che sa di rimpianto.