lunedì 30 luglio 2012

Jim Carroll

Chi ha seguito Jim Carroll anche nei bassifondi del rock’n’roll ha conosciuto i suoi sogni asciutti, le barricate, gli angeli e i corvi, e poi Evangeline, Jody e Lorraine, le stanze e le voci, la gente che muore e quella che vive giorno e notte. “I santi sanno chi sono. Poiché danzo, hanno messo in chiaro che potrebbero non offrirmi alcun aiuto. Ciò malgrado, hanno fatto voto di rispettarmi” scrive come se dovesse presentarsi in Paura di sognare e, almeno da queste parti, dove Catholic Boy e Dry Dreams, ma anche I Write Your Name sono stati consumati fino all’osso, non era proprio necessario. Jim Carroll è stato un esploratore assiduo dell’oscurità e le poesie di Paura di sognare, che riassumono una moltitudine di liriche composte nell’arco di vent’anni circa (dal 1973 al 1993, compreso gran parte di The Book Of Nods) lo trovano nel pieno di una maturità ormai compiuta, come scrittore, senza dubbio, e anche come acuto osservatore della notte e della metropoli, la sua New York. Uno dei suoi versi dice: “So che questa città morirà prima che faccia sera” ed è allora che entra nel territorio più pericoloso, quello della complessa definizione della sua personalità. Nel tardo ventesimo secolo non sono in molti quelli che hanno avuto la temerarietà di affrontare se stessi, inseguendo i propri alias nei meandri più cupi e nascosti e nei viaggi misteriosi dei sogni perché “ogni sogno riguarda la distanza”. E’ un’ossessione che Jim Carroll vive anche con una sottile forma di consapevolezza (“Non mi annoio mai. Mi intrattengo” dice con una vena di autoironia) e quando la deve affrontare ha ormai chiaro quali sono gli strumenti e le opzioni possibili: “Il tormento può essere piegato in due come un foglio di carta bianca. O riempito di parole. Non importa. E’ solo un primo passo. Devi proseguire con le pieghe, parallele a ciascuno lato, finché la loro complessità non cresca su se stessa, non formi una grazia delicata. Separata. Che si fronteggi”. Diventa evidente nella Coda finale di Paura di sognare, dove Jim Carroll scrive: “Sto diventando come se stessi rispondendo della fortuna dispensata proprio mentre ultimamente sto perdendo, disponendomi superficialmente a continuare a dare eppure sommando ciò che devo, sapendo quanto è dovuto, facendo ora ciò che è necessario per quello che sto diventando”. Il divenire è uno dei temi ricorrenti nella Paura di sognare e non dipende soltanto dall’instabile natura dei sogni per cui “diveniamo i figli di un sogno che ricorre nel tempo”. E’ anche il frutto di altre visioni, quelli che Jim Carroll chiama “i lavori dei maestri” che contribuiscono in modo altrettanto invasivo a trasformare “versi di bellezza e amore in codici di identificazione”. Con Paura di sognare, Jim Carroll omaggia, in un modo o nell’altro, Phil Ochs, Lou Reed, John Donne, Jorge Luis Borges, Frank O’Hara, per concludere dicendo: “Poi vado, lasciando ogni cosa com’era… Un letto, una sedia dai colori accesi. Forse una scrivania. E’ come una poesia. Più piccola è la stanza più pulita dev’essere quando hai finito”. Il presagio lasciato da un sogno turbolento. Un commiato fatto di “eterna nobiltà”.

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