lunedì 4 luglio 2011

Stephen King

“Ciò che corre in tondo torna sempre. Credo l’abbia detto Bob Dylan… O forse è stato Ronald Reagan” si chiede la voce narrante di It e la domanda resta relativa: non importa chi sia stato, è sempre la stessa America che entrambi evocano, un’America immaginaria, sospesa in un limbo di speranze e illusioni. Nella definizione di William Carlos Williams, l’anfitrione che porta a Derry, cioè a It, “un ammasso di poltiglia, una gelatina, una lastra sensibile pronta a ricevere qualsiasi segno vi si voglia imprimere”. Guarda caso, è la stessa plastica e multiforme natura di It ed è per questo che il senso del tempo è quello di un ritorno al futuro e gli elementi fantastici, più che in altri romanzi di Stephen King, appaiono, sì, strutturali, risolutivi e spettacolari, ma non centrali e assoluti. Il mostro, quella “cosa” che si nasconde tanto nelle viscere di Derry, quanto nel passato dei protagonisti, è un riflesso della nostalgia ed è parte della città, della sua storia, del suo intimo. Il paesaggio è dialettico e il ritorno a Derry implica il conflitto con la malefica presenza nei sotterranei della città perché It è Derry e come dice Beverly Rogan “l’incubo è Derry”: un polo magnetico la cui forza d’attrazione è fornita da un nucleo potente e indefinito, la magia di un’età, quella dei bambini, in cui le storie sono tutto. Alla fine è lo stesso Stephen King che “pensa che è bello essere bambini, ma è anche bello essere adulti ed essere capaci di riflettere sul mistero dell’infanzia”e It vive di quella battaglia con e/o per i ricordi che emergono con il volto di un clown o con le sembianze di un lupo mannaro o di qualsiasi altro mostro si annidi tra le fogne e a cui non resta che voltare le spalle perché ogni protagonista “nei sogni che farà in futuro sta sempre partendo da Derry da solo, al tramonto. La città è deserta, se ne sono andati tutti”. Magari It non sarà un capolavoro della letteratura americana, ma è una bibbia del rock’n’roll: John Lee Hooker, Joe South, Neil Young, Chuck Berry, Nick Lowe, Marvin Gaye, i Doors, Eddie Cochran, Jerry Lee Lewis, Screamin’ Jay Hawkins, Buddy Holly, Little Richard, Frankie Lymon non sono soltanto la colonna sonora palpitante del Club dei Perdenti. Il rock’n’roll è ovunque, nel passato e nel futuro con il suo infinito presente che nell’era di It, scritto tra il 1981 e il 1985, vuol dire Born In The USA di Bruce Springsteen. Oltre all’epigrafe iniziale, ovvero proprio i primi versi della stessa canzone, Born In The USA fornisce altre due tracce fondamentali: No Surrender e soprattutto Glory Days. No Surrender è l’inno che risponde alla storia di It e Glory Days è il ritornello che crea un varco verso il passato. Born In The USA e It vivono in parallelo la stessa America nostalgica, che poi, come si sa, venne sfruttata a livello di consenso e quindi di politica. Di più il legame con Born In The USA riporta alle sue origini più tragiche e se Stephen King chiamava quell’oscurità It, Bruce Springsteen l’ha chiamata Nebraska.

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