lunedì 11 marzo 2024

Sigurd F. Olson

Il canto selvatico ha un indice composto dalle quattro stagioni attraversate come se fossero un’unica esperienza, frutto di un’immersione nella wilderness con tutti i sensi allertati (“Ovunque ci si trovi, è certo che si scoprirà qualcosa di memorabile”). La pratica della pesca (soprattutto), della caccia, l’osservazione e l’esplorazione conducono Sigurd F. Olson a considerazioni più ampie e approfondite rispetto al loro esercizio: “Sempre mi accompagnano la ricerca e l’ascolto, non solo per me stesso ma anche per chi era con me, e ho scoperto che ogni volta che riaccendevo un barlume di quell’originario sentimento di comunione e appartenenza conosciuto fin da bambino, ogni volta che intravedevo anche solo per un istante la meraviglia conosciuta allora, gioia e felicità mi colmavano”. Il viaggio a piedi lungo le rive o dentro il fiume in canoa (“Il movimento della canoa somiglia a quello di un giunco al vento. Il silenzio ne fa parte, così come lo sciabordio dell’acqua, il canto degli uccelli e il soffio del vento fra gli alberi. La canoa appartiene al mezzo che attraversa, al cielo, all’acqua, alle rive. Un uomo è parte della sua canoa e di conseguenza parte di tutto ciò che essa conosce”) lo porta a considerare che i laghi e gli stagni e le pozze nei torrenti hanno la stessa dignità. Le escursioni di Sigurd F. Olson sono volte in direzione di una dimensione che è nello stesso tempo primordiale e inedita, per quanto trascurata a favore di una realtà urbana, meccanica e artificiale che l’essere umano si è autoimposto in virtù di chissà quali obiettivi. Saganaga, Manitou, Lac la Croix, Isabella Skylien Trail, Low Lake, Gabemichigami, Kawishiwi, Snowbank Lake sono “luoghi in cui il tempo non significava niente e l’uomo poteva ritrovarsi e ascoltare i propri sogni”. Il rispetto per le origini native conduce a rivedere l’armonia tra gli esseri viventi e non: dagli alberi, le cui liriche descrizioni rivelano una relazione speciale agli animali (le trote, le oche selvatiche, lo scoiattolo, il germano reale sono protagonisti assoluti) fino alle pietre perché Sigurd F. Olson vorrebbe scambiare le sue piccole preoccupazioni “con un po’ della loro stabilità e calma” e ognuna di loro rappresenta una terra in comune. Nello stesso modo, raccoglie nodi di legno per conservarli e bruciarli nei momenti speciali, le chiacchiere con gli amici, perché “più bello che trovare nodi c’è solo vivere in un luogo remoto, portarsi via qualcosa dalle terre selvagge che nessun altro avrebbe trovato per te, una cosa che non vorresti che qualcun altro facesse, tanta è la gioia di farlo tu da solo”. Il canto selvatico è un’apologia incontrastata e insindacabile della wilderness, la splendida realtà della percezione della natura nel suo svolgersi diretto che si apre e si evolve come un processo di identificazione con il paesaggio e il territorio. Sigurd F. Olson scrive che “la ricerca stessa è una ricompensa, poiché nel processo attingiamo ai profondi pozzi dell’esperienza umana, e questo ci fa sentire di appartenere a un’esistenza in cui la vita era semplice e le soddisfazioni reali”. Quella consapevolezza riguarda lo sguardo, il movimento, il superamento delle difficoltà, perché “il piacere estetico non va sempre di pari passo con quello fisico, che non si possono apprezzare appieno odori, panorami e suoni se ogni passo è uno sforzo”. Finalmente una smentita dei luoghi comuni per cui faticare e rischiare sono una componente irrinunciabile, dato che poi sono molto più importanti “i tramonti, il colore delle nuvole e delle foglie, i riflessi sull’acqua”. La semplicità di ogni passo che sottintende Il canto selvatico è un’elegia alla scoperta del “silenzio della natura, quel senso di unità generato solo dall’assenza di immagini o suoni che ci distraggano, un’unità percepita dall’orecchio e dall’occhio interiori, quando sentiamo e siamo consapevoli con tutto il nostro essere piuttosto che con i sensi”. Sigurd F. Olson si premura di precisare più volte che “il silenzio appartiene al mondo primitivo. Senza di esso la vista di un paesaggio immutato non è altro che rocce, alberi e montagne. È il silenzio a dargli valore e significato”. Ed è lì che si può sentire quella che chiama “musica selvatica”, ovvero “il gemito e lo scricchiolio del ghiaccio che si forma sui laghi, il fruscio degli sci o delle racchette da neve sulla neve asciutta: tutta musica selvatica, musica per i nativi per coloro che hanno orecchie per udire”. Le stagioni ci sono ancora tutte, basta ascoltarle.

mercoledì 6 marzo 2024

Louise Glück

Nella Notte fedele e virtuosa c’è una “teoria della memoria” che si sviluppa per gradi nel racconto altalenante di Louise Glück. La notte “così desiderosa di contenere percezioni strane” è il momento propizio per salvare il pensiero di una bambina spaventata davanti al treno (e non a caso succede in Utopia) mentre “tutto il resto è ipotesi e sogno”. Le composizioni sono lunghe ballate che si snodano nella lingua lineare e immediata di Louise Glück, come in un personalissimo diario che presenta così: “La mia storia comincia molto semplicemente: potevo parlare ed ero felice. Oppure: potevo parlare, dunque ero felice. Oppure: ero felice, dunque parlavo. Ero come un fiotto di luce che attraversa una camera scura”. Le cronache famigliari vedono l’infanzia come una tavolozza di colori che viene riscoperta, un canovaccio utile per leggere i dettagli dei ricordi che si accumulano in una vita. Un pezzo dopo l’altro, come a tracciare un quadro generale, dice ancora Louise Glück: “Naturalmente in un certo senso non ero a mani vuote: avevo le mie matite colorate. In un altro senso è questo che voglio dire: avevo accettato dei surrogati”. I versi di Cornovaglia suggeriscono alcune possibilità. Prima, è la visione di una parola che “cade nella nebbia, come la palla di un bambino nell’erba alta dove rimane seducente lampeggiando e brillando finché si scopre che i barbagli d’oro sono comuni ranuncoli di campo”. Poi, “la notte avanzava. La nebbia turbinava sopra i lampioni accesi. Cioè dove era visibile, immagino; altrove era semplicemente nell’aspetto delle cose, confuse dove prima erano terse”. Nel confrontarsi con “un silenzio di parole risentite”, Louise Glück colloca la lettura di Un romanzo, dove “forse le parole saranno meno minacciose, se ricorderai come le hai sentite la prima volta, dalla voce di una bambina”. Si rivolge a se stessa, indagando in continuazione il passato e in contemporanea allargando lo sguardo a un universo fatto di piccoli schizzi, come succede in Avvicinamento all’orizzonte (“Così cominciamo. C’è un senso di allegria nell’aria, come se cantassero uccelli. Dalla finestra aperta arrivano ventate dal profumo dolce”) o in Mezzanotte: (“Finalmente la notte mi circondò; ci galleggiavo sopra, forse dentro, o mi portava come un fiume porta un battello, e allo stesso tempo vorticava sopra me, tempestata di stelle e tuttavia oscura”). L’osservazione e l’esercizio della percezione sono  una costante e questo, come scrive La coppia nel parco, “dovrebbe spiegare la musica enigmatica che proviene dagli alberi”. I rilievi sono tantissimi, passano da una canzone di Jacques Brel alle sfuggenti immagini urbane (“La città è dove sparisco”) anche se poi Louise Glück ritorna e riprova, e nel frattempo rammenta: “Era tutto alle mie spalle, tutto nel passato. Davanti, come ho detto, c’era silenzio”. La domanda che sovrasta la Notte fedele e virtuosa è quella che spicca, anche per contrasto, in Storia di un giorno: “Ma se l’essenza del tempo è mutare, come può una cosa qualsiasi divenire nulla?”, e la risposta sembra arrivare un po’ più in là, quando scrive: “Quanto è tutto tranquillo, silenzioso, come un pomeriggio a Pompei”. L’ironia è compresa nel prezzo e il commiato è il passo successivo: “Penso che qui vi lascerò. Viene da pensare che non c’è conclusione perfetta. In effetti, ci sono infinite conclusioni. O forse, una volta che si incomincia, ci sono solo conclusioni”. L’indecisione è un universo fluttuante e come scrive in La serie bianca, “la fine veniva e andava”, solo la poesia rimane sulla soglia di una casa popolata di fantasmi.

martedì 5 marzo 2024

Daniel Keyes

L’intelligenza è un desiderio assoluto che Charlie Gordon associa con molta spontaneità alla conoscenza e, in particolare, alla scoperta di sé e di una nuova consapevolezza della propria persona. Per più di trent’anni della sua vita è rimasto prigioniero della sua ingenuità e delle sue lacune, poi viene coinvolto in un tentativo di cura e di modifica delle attività cerebrali, destinato a rivoluzionare la cultura scientifica. Le intenzioni sono ammirevoli ed è in buona compagnia perché lo stesso procedimento è applicato a un simpatico topolino, Algernon. La modifica dell’intelligenza per via chirurgica e farmacologica però è instabile e provvisoria, come si scoprirà, ma sono più problematiche le alterazioni sociali che provoca nell’immediato. All’inizio Charlie non riesce a scrivere neanche in modo sensato, nonostante l’impegno. Terminare una frase è una tortura, ortografia e grammatica neanche a parlarne. Poi comincia a prendere padronanza delle principali proprietà della conoscenza, i progressi si fanno via via più importanti e sempre più veloci. Il diario comincia a diventare comprensibile. Per Charlie Gordon, la rinnovata intelligenza e la fame di conoscenza sono una corsa nel vuoto e un cambiamento troppo radicale. Prima ribalta la sua condizione di garzone in una panetteria, con conseguenze imprevedibili, poi lo sviluppo delle capacità intellettuali lo porta da cavia a testimone del suo esperimento, e ancora più avanti. Un salto di qualità che lo renderà in grado di esprimersi “a proposito delle varianti culturali e della matematica neo-bouleana e della logica post-simbolica”. Più di tutto, la nuova capacità intellettiva lo spinge a recuperare ricordi ed emozioni sepolte nel passato, compiendo un viaggio a ritroso nel tempo, verso le sofferenze famigliari, fino a ritrovare la madre e il padre e a confrontarsi con i traumi dell’infanzia (compreso l’elettroshock) e con quello che riemerge dai ricordi e nei sogni. L’associazione imperfetta tra intelligenza e subconscio tende ad alimentare i conflitti in modo esponenziale e a quel punto le reazioni sono incontrollabili. Charlie si trova ad affrontare l’inarticolato linguaggio dell’amore (e del sesso) con Alice e Fay e diventa un’incognita anche per il professor Nemur e il dottor Strauss, i fautori del test. Le modifiche chimiche hanno un funzionamento repentino in entrambi i sensi e questo vale anche per Algernon. Sono tutti e due cavie, ma Algernon non ha il dono e il peso dell’evoluzione del linguaggio e di conseguenza dei rapporti umani. Resta barricato in un angolo. L’intelligenza è limitata nel tempo, il progresso è retroattivo e il ciclo, tanto veloce quanto inverso,  si completa con l’involuzione di Charlie che ben presto torna a essere la persona limitata di prima. A sottolineare l’ultimo passaggio è ancora il legame con il piccolo topo: all’inizio c’era la competizione, poi la condivisione dello stesso, amaro destino, fanno di Fiori per Algernon un romanzo che tocca in profondità l’animo dei suoi protagonisti e, a distanza di mezzo secolo, pone degli interrogativi sull’intelligenza che sono sempre più attuali. Daniel Keys ha saputo concentrare tutta una spirale di speculazioni scientifiche e filosofiche in personaggi indimenticabili, a partire da Charlie Gordon, va da sé, che impongono a Fiori per Algernon un ritmo incessante e ipnotico e gli conferiscono la statura di un classico che, una lettura dopo l’altra, si rivela ogni volta più grande e importante.

sabato 17 febbraio 2024

Gina Berriault

Le luci della terra si perdono nel confronto del mare perché restano avvolte in una fitta nebbia di ricordi incontrollabili, rimpianti che proliferano come fantasmi, nessuna alternativa se non un falò in riva all’oceano, e va male pure quello. Gina Berriault segue personaggi “incapaci di comprendere il mondo e ostinati al modo in cui bisognava immaginarselo”: le loro relazioni sono claudicanti e faticose e il più delle volte sono tutti sull’orlo di una crisi di nervi, con una vocazione al suicidio, neanche tanto velata. Sono obnubilati da quello che chiamano“il presagio della perdita”, il senso latente di essere abbandonati che non li lascia mai. Ilona Lewis, più di tutti, è rimasta sola: il fratello, Albert, si è trasferito a Chicago e la figlia Antonia è in viaggio sull’Himalaya. Le lettere sono scambi di parti vitali, ma non sortiscono particolari effetti mentre Ilona, convinta che “dietro l’incertezza dell’amore c’è la certezza della complicità”, insegue Martin Vandersen, amante e scrittore che sta vivendo il breve abbaglio della notorietà e un bel momento di confusione indotto dalla provvisoria fama. A dire il vero, sono tutti scrittori (anche Ilona) a diversi gradi di disperazione. Per dire, Claud, un altro amico fragile, “ogni volta che trovava il libro di uno dei suoi scrittori preferiti a casa di qualcun altro provava una fitta di gelosia, come se lo scrittore fosse stato solo suo, il suo amico più caro”. Poi ci sono Jerome, che dopo anni di tribolazioni decide di distruggere il suo manoscritto, e la stessa Ilona che nell’insistere con Martin, crede che “la felicità degli amanti era realtà, e l’immaginazione non le si avvicinava nemmeno”. Le luci della terra è un breve romanzo imperlato di dolore, ma con una consapevolezza intima della sofferenza e delle difficoltà che le persone devono superare per avvicinarsi veramente, e conoscersi. La scrittura raffinata e superiore di Gina Berriault, fatta di frasi precise e taglienti, è spietata con tutti i suoi personaggi e se impone un confronto complesso è perché “chiunque ci guidi più a fondo nell’essenza delle cose all’inizio pare un nemico”. Non si fanno sconti: anche delle innocue campane a vento portano ricordi brutali e la sincerità resta l’ultima spiaggia, almeno per Ilona: “Se ho dei problemi, e ne ho, sono di quel genere che va bene avere, perché sono umana e provo sentimenti, e quei problemi non riguardano solo me, riguardano molte altre cose più grandi di me”. Le luci della terra testimoniano passaggi delicati nella cornice di San Francisco e della costa californiana, finché Ilona non è costretta a raccogliere le spoglie del fratello a Chicago. La tragedia in sé è “un senso di vergogna per la paura della perdita e per la perdita che di fatto avevano subito” e quando lei, e Claud, e Martin si accorgono che un abbandono “era naturale quanto il respiro”, è troppo tardi e la somma di solitudini trasforma Le luci della terra in un labirinto esistenziale che Gina Berriault sa architettare con grande equilibrio, ma anche con un calore inaspettato. Molto lo si deve al carattere di Ilona che riesce ad ammettere con un certo candore: “Se chini la testa per tanti anni sull’infinità di ciò che non sai, sull’immaginazione che è il sostituto del sapere, rimarrai sorpresa quando la rialzerai, scoprendoti più vecchia di quando avevi iniziato”. È il limite implicito di un’ossessione che “si esaurisce da sola o esaurisce la sua preda”, lasciando in eredità soltanto qualche traccia sulla battigia e le scintille di un libro che brucia da solo.