venerdì 1 dicembre 2017

Robert Palmer

La storia di Deep Blues coincide con quella di Robert Palmer. Figlio di un’era in cui raccontare un disco aveva una sua logica, Robert Palmer applicava alla critica musicale lo stesso spirito di ricerca che lo alimentava nella vita. Ruotava tutto attorno alla musica: suonata (al clarinetto e al sassofono), raccontata, filmata. A sua volta, Deep Blues è stato l’elemento che ha condensato tutte le passioni di Robert Palmer tanto è vero che il libro si è rivelato una porta aperta verso l’omonimo film e la relativa colonna sonora. Al centro di Deep Blues, c’è il Delta, il cuore del blues, il punto di partenza e di arrivo, estremi che sono stati ripercorsi proprio sul campo. Una lunga traversata a ritroso, nel tempo e tra due continenti: la povertà (ancora oggi), la schiavitù, l’Africa. Non è soltanto un viaggio metaforico: tra l’altro avendo accompagnato, con Brian Jones alla scoperta dei Master of Jajouka, Robert Palmer ha conosciuto a fondo le radici africane del blues ed essendo cosciente che si tratta di “una forma letteraria e musicale” proiettata da “una fusione di musica e poesia ottenuta a una temperatura emozionale altissima” si è avvicinato, se non altro, a circoscriverne il DNA culturale. L’ha fatto attraverso il contatto diretto con i protagonisti che, a partire da Muddy Waters, hanno messo a disposizione la loro testimonianza vitale per guidare Robert Palmer in “un enorme campo di sentimenti”. Il suo lavoro, in Deep Blues, si rivela un ibrido altrettanto denso: le storie orali raccolte on the road sono corroborate da un’attentissima dissertazione sulle condizioni sociali e politiche in cui il blues ha preso forma perché la sua originalità “non è questione di sedersi a creare dal nulla le canzoni. Anzi un blues singer con un pezzo fatto interamente o quasi di frasi, versi e strofe rubati rivendicherà ugualmente come sua la canzone, e avrebbe ragione. Da un punto di vista lirico, l’arte di scrivere canzoni blues equivale al combinare frasi, versi e strofe che hanno un’eco emozionale compatibile formando un insieme che rifletta le esperienze, i sentimenti e gli umori del cantante e quelli degli ascoltatori. E più spesso che no il risultato è assolutamente originale”. La vera scoperta di Robert Palmer è quella che non dichiara, almeno non in modo esplicito, ed è stata nell’aver colto la contemporaneità della dimensione collettiva e universale del blues con l’espressione individuale, quest’ultima riassunta così: “Ogni artista blues attinge a un coacervo di queste fonti e all’infuenza di altri artisti blues, e tira fuori qualcosa che è tipicamente suo. L’unico modo per definire il blues con una certa precisione sarebbe considerare il repertorio di ogni artista blues”. Il suo è stato qualcosa di più di un tentativo di descrivere qualcosa di illimitato. Affascinato dalle atmosfere del Delta, trascinato nei misteri lungo i crossroads (e la sua interpretazione sui presunti patti mefistofelici merita di essere assunta a standard per tutte le analisi prossime venture), coinvolto al punto di rendersi conto che “il blues più deep chiede ai suoi ascoltatori di affrontare le proprie gioie, dolori, brame e, soprattutto, la propria mortalità”, Robert Palmer non tornò più a casa, lasciandoci Deep Blues quasi come un testamento spirituale. 

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