giovedì 23 novembre 2017

Thomas Harris

Quando Hannibal Lecter, nel suo antro sotterraneo dove è rinchiuso senza futuro, dice a Clarice Starling che vive “la memoria al posto del panorama”, s’intravede la sottile filigrana che abbraccia tutto Il silenzio degli innocenti. Il susseguirsi delle scene è scandito da un ritmo preciso, che non sbaglia un colpo ed è dettato da tutta una serie di piccoli agganci e di rimandi nella trama, distribuiti da Thomas Harris senza risparmiarsi eppure con meticolosa accortezza. Tutto è incastrato proprio come il meccanismo di sparo di un’arma da fuoco: semplice, solido, micidiale, ineluttabile. Il silenzio degli innocenti è costruito nello stesso modo, a partire dalla triangolazione che unisce Hannibal Lecter, Jack Crawford e Clarice Starling che è l’architrave di uno schema preciso e reiterato. Tutto ruota attorno ad una serie di figure che si incastrano per le estremità. Clarice Starling, “remota e bella. Una ragazza che sembra un tramonto d’inverno” nella descrizione di Frederick Chilton, è l’elemento catalizzatore che mette in comunicazione linee diverse, le asseconda e, comprendendole, riesce a renderle intellegibili al lettore. Anche nel corso di una storia tutt’altro che semplice, come è Il silenzio degli innocenti. Jack Crawford, elegante e tormentato, acuto e concentrato distribuisce le carte ma è con Hannibal Lecter che Thomas Harris ha colto uno di quei personaggi destinati a pesare per sempre nell’immaginario. Inserita in una cornice ben delimitata, e senza sbavature, la scrittura resta lineare, senza particolari pretese stilistiche, accattivante, eppure Thomas Harris ha uno spiccato senso per il dettaglio, un modo coinvolgente di attirare il lettore e non mollarlo mai. Con molto mestiere, senza dubbio, ma anche con l’abilità raffinata nell’elencare le svolte fondamentali, nel renderli chiari, scegliendo dialogo per dialogo quali leve usare per svelare il passaggio successivo. Come spesso capita nel confronto tra Clarice Starling e Jack Crawford, in particolare quando le dice: “Mi dia retta: un delitto confonde già abbastanza le idee anche senza bisogno che le indagini mescolino le carte. Non si lasci mettere fuori strada da un’orda di poliziotti. Abbia fiducia nei suoi occhi. Ascolti se stessa. Mantenga il delitto ben separato da quanto succede intorno a lei. Non cerchi di imporre a quell’individuo uno schema o una simmetria. Conservi una mentalità aperta, e lasci che sia lui a rivelarsi”. La realizzazione è impeccabile e Thomas Harris alza il tiro perché non sembra importante chi sia il responsabile degli efferati omicidi, piuttosto l’intricato sottobosco di conflitti (psicologici, procedurali, politici) che sottintendono la ricerca dell’assassino e la sua cattura, e ancora di più “le indegnità subite dalla vittima, l’esposizione agli elementi e agli occhi di estranei suscitano collera, se il tuo lavoro ti permette di andare in collera”. Si capisce perché Hannibal Lecter sia sempre al centro dell’attenzione, un magnete malefico e perverso che, come si sa, nasconde, dietro un’affettata cortesia, un maniaco cannibale. Attorno a lui, Thomas Harris ha costruito un romanzo che nello stesso tempo è una sceneggiatura finita e pronta all’uso. Non a caso le differenze con la bella riduzione cinematografica di Jonathan Demme sono (per una volta) al minimo sindacale: la storia era già perfetta così.

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