domenica 29 dicembre 2013

Tupelo Hassman

Sono gli anni di Reagan ed essere “born in the U.S.A.” voleva dire vivere nel futuro, solo che non è era così scintillante e divertente per tutti. Per Rory Dawn Hendrix, e forse per la stessa Tupelo Hassman, non è stato semplice vivere nella Calle de las Flores, un campeggio con l’ambizione di essere un quartiere da qualche parte “in the middle of nowhere” attorno a Reno, Nevada, un posto dove una casa può bruciare in sessanta seconti perché non è una vera casa, e dove, inoltre, “non è affatto facile far sembrare che la cosa sia facile”. Anche “rimettere insieme i pezzi” non viene spontaneo: alla Calle ci si salva una sola volta. Forse, perché “la Calle è una specie di zona di guerra, il nemico ci circonda, il nemico siamo noi. Siamo così chiusi che non riusciamo a fidarci nemmeno di noi stessi, tantomeno gli uni degli altri, e quando pensi che ti puoi rilassare un po’ c’è un’altra emergenza all’orizzonte e come se non bastasse il cibo è terribile”. Bambina mia è Rory Dawn Hendrix, terza generazione di donne “deboli di mente” che hanno trovato indigesto e insapore il cocktail dell’american dream. Dal punto di vista di una bambina, che tale rimarrà fino alla fine, la Calle è un microcosmo che ruota attorno al Truck Stop (il nome dice tutto) e ai bungalow, non luoghi che sono soltanto l’anticamera della terra di nessuno in cui cadrà. Per un’innocente girl scout in un mondo di adulti irrorato dall’alcol e irretito dal gioco d’azzardo, non è complicato immaginare come può finire: “Io ero bloccata tra un luogo spaventoso e un luogo spaventoso e così aspettavo solo che la cosa passasse, che le domande non mi venissero fatte, e quando ormai era tutto finito, tranne nei miei sogni, ho cercato di dimenticare”. Bambina mia ha una sola inquadratura, un primo piano che si allarga un po’: parte dal sorriso mancato di Johanna,  madre di Rory Dawn Hendrix, e arriva a contemplare anche il terzo stadio dell’albero genealogico con la presenza rivelatoria della nonna, Shirley Rose. Tre donne si trasmettono con una certa naturalezza le proprietà famigliari perché “la merda che produciamo non scompare mai, specialmente quando ci aspettiamo che sia qualcun altro a pulicercela”. Eloquente: il debutto di Tupelo Hassman ha un ritmo incalzante, attraente e avvincente ed è concreto nel rendere l’atmosfera di disperazione e disintegrazione della Calle, dove fruga nella polvere quel tanto che basta. Sorprendente nella prima metà, con alcuni passaggi davvero notevoli, più ci si addentra nell’apatia della Calle, più Bambina mia, come per un processo di osmosi, comincia ad assecondarne la routine e Tupelo Hassman sembra reiterare le promesse iniziali. Anche se il talento e lo stile sono chiarissimi, Bambina mia comincia a ripetersi e a funzionare a corrente alternata nella fase finale, dove Tupelo Hassman, senz’altro con un certo coraggio, assembla parti di sentenze, qualche gioco linguistico e On The Road Again di Willie Nelson, appuntata lì con un gran senso della location. Un bell’esordio, limiti e ambizioni compresi nel conto.

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