mercoledì 17 aprile 2024

Larry McMurtry

Gli spazi infiniti del West venduti senza pudori dominano l’immaginario americano come una terra di conquista e il mito della frontiera coincide con quella destinazione ossessiva, come se fosse una meta con un valore ben oltre le possibilità geografiche ed economiche. Uomini e animali uniti da una prospettiva traballante e pericolosa viaggiano attraverso le forche caudine della sete, della fame, delle asperità dell’ambiente e del clima, dalla siccità ai tuoni e ai fulmini fino al gelo. Devono attraversare le terre dei Comanche e i ranger del Texas sono le forze speciali, l’avanguardia, la scorta. Tra loro ci sono i giovanissimi Gus e Call all’inizio della quadrilogia di Larry McMurtry che comprende Lonesome Dove, Le strade di Laredo e Luna Comanche. Una prima spedizione, quasi un prologo, finisce in un disastro. La seconda, quella che porta a intraprendere Il cammino del morto, ha persino l’ambizione di conquistare Santa Fe. Gus e Call vagano nella prateria, con i sensi in allarme verso forme che cambiano, cercando di orientarsi in un contesto spietato, dove la conoscenza di una formazione rocciosa, di una piega della luce all’alba o dell’odore della pioggia in arrivo può distinguere tra vita e morte. È un mondo tagliente, obliquo e polveroso, dove prevale la lotta per la sopravvivenza. Il cammino del morto è un romanzo dettato dagli elementi: terra (il deserto), aria (il vento) e fuoco che si aggiungono all’acqua, quando c’è, e ancora di più quando è assente. Ai suoi ranger Larry McMurtry non risparmia niente: Il cammino del morto è una specie di ordalia senza fine, con un capolinea in un lebbrosario. La storia si racconta da sola e le prove bibliche definiscono una lunga teoria di  personaggi indimenticabili non meno dei loro tragici destini perché “fare il ranger significa poter morire ogni giorno. Se non vuoi correre il rischio, conviene che ti dimetti”. Quando Gus e Call viaggiano “nella vastità del deserto, l’assottigliarsi del gruppo li faceva pensare a quanto erano piccoli e insignificanti rispetto agli spazi che attraversavano”. L’habitat, magnifico e ostile, è determinante perché “i Comanche erano padroni del loro territorio a un livello irraggiungibile per i ranger”. Si scontrano con la leggenda di Buffalo Hump, con le assurde torture di Kicking Wolf e come se non bastasse devono affrontare anche gli Apache di Gomez (non meno efferati) e l’esercito messicano comandato dal capitano Salazar che, oltre a catturarli e a punirli, si prende il compito di sentenziare: “In questo territorio siamo forestieri rispetto a loro. Sappiamo qualcosa sugli animali, tutto qua. Gli Apache sanno quali erbe mangiare. Fiutano le radici, le dissotterrano e le mangiano. Riescono a sopravvivere in questo territorio perché lo conoscono. Quando impareremo a fiutare radici e a conoscere le erbe commestibili, forse potremo combatterli alla pari”. In poche parole, “vuol dire che dobbiamo essere selvaggi, come i selvaggi”. Per la legge del contrappasso che domina la wilderness di Larry McMurtry, tutto quello che rimane è un manipolo di disperati che devono sopportare “barlumi di speranza che erano nati, ma poi anche morti; le promesse, e il fallimento delle promesse”. Gus e Call superano prove da girone dantesco, ma lungo Il cammino del morto viene forgiata la loro amicizia, un legame che sarà il tratto distintivo in tutta la saga. Finale urbolento, fantasmagorico e sorprendente nel viaggio verso San Antonio e l’oceano, un panorama simbolico opposto e complementare alla prateria, al deserto e alle montagne, ma altrettanto impossibile. Epico.

martedì 26 marzo 2024

Paul Zollo

David Byrne scrive soltanto sulla carta millimetrata, Rickie Lee Jones compone Pirates in un’aula abbandonata, Leonard Cohen si rifugia in un monastero zen e induce tutti al miglior Ballantine, Frank Zappa armeggia con il Synclavier indeciso tra una canzone e una suite strumentale,  Donald Fagen e Walter Becker (ovvero gli Steely Dan) contano il numero delle battute e i cambi di accordi: le ossessioni dei songwriter sono innumerevoli e c’è persino chi, come Suzanne Vega, si fissa su una sola tonalità (“I misteri della vita sono tutti in la minore”) e chi come Carlos Santana ha avuto la sacrosanta pretesa di “combinare la spiritualità con il piacere di muovere il culo”. Con Rock Notes, Paul Zollo le indaga attraverso incontri che vertono sulla composizione delle canzoni e sulle canzoni stesse. Il modello è Scritto nell’anima di Bill Flanagan anche se l’approccio di Paul Zollo è meno diretto, più discreto e, per certi versi, più pertinente. Le interviste seguono uno schema più o meno fisso con una parte introduttiva dedicata all’arte del songwriting e alla specifica percezione di ogni singolo musicista, poi, Paul Zollo si limita a citare una manciata di titoli e l’interlocutore passa ai ricordi e alle descrizioni dei singoli brani. Ognuno la vive a modo suo, come è naturale che sia, ma la formula di base del dialogo è fondata sul tentativo di scoprire se i songwriter hanno un metodo o degli strumenti segreti per scrivere le canzoni. Qualcuno prova a ragionarci, qualcuno no. Secondo Burt Bacharach “la musica genera la propria ispirazione”. Ci sono molti modi di affrontare le canzoni, che per tutti fluttuano nell’aria, indistinte, e c’è chi, per spiegare come funziona l’ispirazione si lascia andare a metafore ardite. Come fa, per esempio, Carlos Santana: “Perché quando invece sento qualcosa, non sento altro che quello. Non sento nient’altro a parte la musica che vuole uscire fuori. Come quando sei incinta, non t’importa niente del resto del mondo, vuoi solo donare la vita a tuo figlio. Ecco, è la stessa cosa”. Le opinioni divergono e Paul Zollo è un interlocutore accomodante che riesce a smuovere anche anche gli intervistati più sfuggenti. David Byrne gli confessa: “Se sei in grado di seguire il tuo istinto, allora vuol dire che sai cosa stai facendo”. D’altro canto, Rickie Lee Jones sembra proprio convenire, pur da una direzione opposta: “Credo che una delle cose più importanti che mi siano capitate è aver imparato che non si deve aver paura di scrivere una canzone, e non bisogna mettersi sempre in discussione”. Un caso a parte è l’intervista (toccante) a Townes Van Zandt, in particolare quando dice: “A me interessa solo catturare qualche briciolo dell’essenza della vita umana”. Sì, nelle sue parti più intime il songwriting confina con un’interpretazione della vita: chiede moltissimo in termini di tempo, conoscenza e più di tutto, attitudine, come spiega Yoko Ono: “Dobbiamo sforzarci di essere veri, questo è tutto. Essere veri non è una cosa che ti capita e basta. Ti ci devi impegnare in qualche modo”. Nelle Rock Notes di Paul Zollo, che comprendono anche le convinzioni illustri di John Fogerty, Roger McGuinn, R.E.M. e Mark Knopfler, la gamma di visuali del songwriting è ricchissima e sfumata: oltre a suggerire un livello più alto e profondo dell’ascolto delle canzoni, pare divertirsi a stuzzicare la voglia di mettere mano a una chitarra o al pianoforte per comprendere o maltrattare una progressione di note e di versi nel tentativo di percepire quella magia evocata più  meno in tutte le interviste. Come procede nella realtà, lo spiegava bene Tom Petty, uno che aveva il dono geniale della semplicità e della sintesi: “Cerchi una parola migliore, un accordo migliore”. Funziona solo così, e per la poesia, le profezie ed altre illuminazioni, bisogna chiedere a Dylan, qui ovviamente citato  da tutti, dall’inizio alla fine.

venerdì 22 marzo 2024

Warren Zanes

Warren Zanes, che ha alle spalle l’esperienza chitarristica con i Del Fuegos e, una volta passato alla letteratura, le biografie di Dusty Springfield e di Tom Petty, si avvicina a Nebraska dalla porta posteriore, in punta di piedi, spiegando nel frattempo cosa c’entrano i Suicide, Hank Williams, Johnny Cash, Flannery O’ Connor, le fotografie in bianco e nero di Robert Frank, gli yodel e il funzionamento di un registratore a quattro piste. È tutto quello che è servito a Springsteen per incidere Nebraska, ed è da quell’isolamento, agli antipodi delle caotiche dinamiche di una rock’n’roll band, che parte Warren Zanes. Springsteen era reduce dall’esperienza di The River, l’incisione infinita del doppio album e il successivo, spettacolare tour. Chiunque avrebbe provato a cristallizzare tutta la propria carriera su quel segmento fortunato e invece, come scrive Warren Zanes, “con Nebraska, Springsteen mise da parte quasi tutto quello che sembrava essere indispensabile per ottenere il successo commerciale, dalla resa sonora chiara e pulita all’esecuzione perfetta, fino alla faccia dell’artista piazzata sulla copertina dell’album. Asciugò le canzoni al punto che quello che rimaneva era il borbottio dell’arte”. Nebraska è un salto nel buio e nello stesso tempo “uno dei momenti più enigmatici della storia della popular music”: è un album estremo, e “impegnativo in quanto pretendeva moltissimo dall’ascoltatore”. Ancora adesso è così, solo che Warren Zanes illustra i motivi con una passione ammirevole, ma senza lasciarsi trascinare dalle emozioni, che pure filtrano in quantità. Racconta a fondo sia la scarnissima natura estetica delle canzoni, sia i dettagli (fondamentali) della minimale incisione, con tutti gli elementi tecnici in primo piano. Un bel calvario, tanto che, secondo lui, Nebraska resta “incompiuto” e “consegnato a un mondo in procinto di oltrepassare la soglia di quel digitale attraverso cui la tecnologia avrebbe consentito alla musica registrata di essere perfettamente sincronizzata e di ottenere l’intonazione perfetta, ma facendole rischiare di perdere la connessione con il non aggiustato e l’inaggiustabile”. Un incidente di percorso dove domina “l’austerità” e gli aspetti formali, compresi quelli specifici legati alla strumentazione, e ai diversi passaggi delle registrazioni e delle masterizzazioni, persino la stessa, spartana copertina concorrono a fare di Nebraska un caso unico, perché, come scrive Warren Zanes, “ci sono momenti, nella carriera di gran parte degli artisti, in cui costoro assorbono di più, cercano di più e ci vedono più chiaro, senza necessariamente sapere perché lo fanno”. È in quell’abbandono e in quella solitudine che emerge una “luce”, che apre uno squarcio tutto da esplorare. È proprio lì, dentro una ferita aperta, che è arrivato Bruce Springsteen: “Avevo solamente un certo tono in mente, che percepivo simile a quello che c’era quando ero ragazzino. E allo stesso tempo sembrava che quel tono coincidesse con quello del paese all’epoca”. Questo viaggio nel tempo non sarà indolore, né per lui né per l’America intera e questo perché Nebraska è l’apologia dell’imperfezione, che in sé rappresenta tutta la sua tenebrosa bellezza. Bob Clearmountain, uno che ha firmato il sound di una miriade di dischi, delineando un intero standard qualitativo, ha detto: “C’è qualcosa di unico negli esseri umani che suonano la musica. E nel momento in cui siamo riusciti a vedere e a sistemare gli errori, abbiamo smesso di ascoltare gli esseri umani. Nebraska? Il fatto di suonare in quel modo era una delle sue qualità più importanti”. Si tratta, in tutta evidenza, di una specie di rivoluzione copernicana del rock’n’roll e Liberami dal nulla non è soltanto il racconto sull’album home made di Springsteen, ma ci dice quanto in profondità ci toccano le canzoni, il rock’n’roll, e tutti i fantasmi che si portano dietro. 

martedì 19 marzo 2024

Colson Whitehead

Il ritmo di Harlem detta il tempo di Ray Carney, che cerca di salire i gradini di un scala sociale in una New York che si trasforma via via che passano gli anni e dove “il degrado urbano saltava da un posto all’altro come un branco di pulci”. Fin dalle prime battute, il groove è sincopato e senza sosta e, come succede spesso nei romanzi di Colson Whitehead, la trama di infittisce capitolo dopo capitolo, tanto è vero che è facile perdersi nel frenetico susseguirsi di colpi di scena. Ray Carney è attirato nel mondo criminale da Freddie, cugino e amico che gli propone di piazzare il frutto di un colpo. Non che voglia farsi mancare l’occasione, ma ci sono molti punti ambigui, dovuti nello specifico all’habitat perché “questa nuova terra era grande almeno qualche isolato, e a Harlem qualche isolato era tutto. Qualche isolato era la differenza tra gran lavoratori e delinquenti, tra opportunità e fatica ingrata”. La rapina fila liscia, ma rubano i gioielli della donna di Chink Montague, un altro boss, ma siamo ancora all’inizio: più ci si addentra e il più Il ritmo di Harlem diventa denso e profondo come se Ray Carney sommasse una serie di ruoli incongruenti: la vita in famiglia (con la moglie, i figli e i suoceri, arrivati e insopportabili), il negozio di mobili (con i relativi affari), i disastri del cugino Freddie, gli intrighi politici, la corruzione e le sommosse. L’intersecarsi di cronache e vicende storiche con il flusso del romanzo riflettono “influenza, informazioni, potere. A quei tempi non era chiaro chi si faceva, e di quale droga, ma a ben guardare mezza città era sotto l’effetto di qualcosa”.  Le rivendicazioni e i soprusi, la notte e il giorno, la Nuova Frontiera e l’arrivo della Polaroid: Harlem è una mappa brulicante di vita (e di morte) ed è un proscenio teatrale aperto su tutti i fronti e lungo un arco temporale che parte dal 1959 e attraverso il 1961 arriva al 1964. Non sono anni relativi e il dilemma, suo e di tutta la città, era affrontare “il mondo come poteva essere contro il mondo così com’era”, mentre “la città prendeva ogni cosa tra le sue grinfie e la sbatteva di qua e di là. Magari potevi decidere in quale direzione, e magari no”. La spinta maggiore viene dalla musica, che Colson Whitehead diffonde come se ci fosse una radio accesa in sottofondo: il rhythm & blues e il be bop, Mingus Ah Um, Cab Calloway, Dinah Washington, Billy Eckstine, gli Ink Spots, le Supremes, Ornette Coleman, Duke Ellington, lo show dei Four Tops cancellato e W. C. Handy che abita di fronte a Leland Jones, il suocero di Ray Carney. È così che Il ritmo di Harlem riesce a condensare “il buon vecchio know-how americano in bella mostra: compiamo meraviglie, compiamo ingiustizie, e non siamo mai stati con le mani in mano”. Nelle mutazioni di New York, uptown & downtown e nel turbinio di “violenza-e-caos”, Colson Whitehead consente a Ray Carney, l’uomo senza qualità che si destreggia nelle ambiguità della metropoli, di galleggiare in una zona grigia, dove “c’era dolore e dolore. Diversi ordini di grandezza, sopportabili o no. Prendersi una fetta di torta e prendersi mezza torta”. L’atmosfera è questa, poi la sensazione è che la città in sé sia un organismo vivente che cambia pelle indifferente ai destini dei suoi abitanti. Si aprono i cantieri del World Trade Center, per qualcuno il futuro scompare all’improvviso, e si deve accontentare di una lapidaria constatazione: “Se continui a masticare una delusione, dopo un po’ perderà tutto il sapore”. È la storia di una vita, e di un’intera nazione, che lascia in bocca un gusto forte, e un po’ amaro.