lunedì 9 aprile 2018

Daniel Buckman

Daniel Buckman, già paracadutista dell’ottantaduesima divisione aerotrasportata, in Guerre americane tratteggia a tinte fosche e fortissime la vita violenta di Jack Tyne e Danny Morrison, due veterani che combattono una particolare guerriglia nei bassifondi di Chicago. Un romanzo crudo e durissimo che giustamente ha fatto evocare le pagine di Nelson Algren e che ha il coraggio di enunciare una verità fondamentale valida per tutti i loser quando dice “che a questo mondo nessuno va avanti, ci muoviamo solo di traverso”. Jack Tyne è stato in in Honduras all’epoca delle guerre segrete di Reagan e, pur non avendo sparato un colpo, ha toccato con mano gli estremi della durissima “legge delle baracche”, che non tollerando le diversità e le debolezze, le elimina a furia di pestaggi e insulti, e la noia mortale che riassume così: “Qui si passa un sacco di tempo seduti ad aspettare di andare da qualche parte a ricominciare ad aspettare”. Per lui la divisa era inevitabile, perché le Guerre americane sono state una tradizione di famiglia. Il padre John è morto in Vietnam e “il corpo dei marines ha rimandato la sua bara vuota. Di lui non era rimasto nulla da seppellire”. Il nonno, che zoppica per il frammento di una granata giapponese che gli ha rotto il femore a Saipan,  che lo porta a visitare la sua tomba, in una delle scene più strazianti. Sono stati tutti soldati e sono tornati disturbati: non hanno un posto dove andare, le uniche donne che conoscono sono le puttane che si possono permettere con quello che gli resta della paga (uno squallore) e sono aggrediti da un flusso di ricordi atroci, tanto è vero che “nessuno di loro doveva dimenticare nulla, né cercare di non ricordare cosa aveva visto con i propri occhi”. L’alcol e la droga servono a poco, se non ad aumentare i danni, perché “una volta che un idiota comincia a fare qualcosa, bene o male ci resta appiccicato per tutta la vita”. Lo sa bene Danny Morrison alias Danny Irish che è un altro veterano passato dalla giungla del Vietnam a quella urbana di Chicago. Rientrato in patria, Danny Morrison è diventato un poliziotto dal grilletto facile che si è lasciato assorbire dai gironi cupi e decadenti di una metropoli dove vengono organizzati “combattimenti di galli per i portoricani e combattimenti di cani per i neri”. La violenza è diffusa nell’aria e il linguaggio è esplicito, grezzo, volgare, e non nasconde né le tensioni razziali né le differenze di classe che Jack Tyne, una volta congedato, affronta quando trova lavoro come facchino. Dura poco (una giornata), perché viene aggredito nell’oscurità, derubato e massacrato. È il momento dell’incontro con Danny Morrison che, aiutandolo, vede in lui un’ipotesi di redenzione, ma due desolazioni non fanno una possibilità, sono soltanto una miseria accanto all’altra, perché “dove c’è vera tristezza non c’è consolazione che tenga”. Feroce, ma anche frammentario e amarissimo, il romanzo di Daniel Buckman mette in risalto i proventi finali delle Guerre americane, un secolo di conflitti che hanno generato una nazione di reduci che non sono mai tornati davvero a casa.

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