mercoledì 14 febbraio 2018

Theodore Sturgeon

Un gruppo di bambini emarginati ed isolati scopre di possedere e di saper gestire un’ampia gamma di poteri che vanno dalla facoltà di comunicazioni telepatiche alla possibilità di spostarsi da un luogo all’altro. La loro lenta e complessa associazione forma un’entità superiore ai normali esseri umani, ma pur sempre imperfetta e, come tale, a rischio di estinzione. Edward Hamilton Waldo o meglio Theodore Sturgeon, nonostante una produzione prolifica di romanzi e racconti, è stato costretto nel recinto della fantascienza, che aiuta a collocarlo, ma non rende la dignità di un grande scrittore. La sua narrativa conteneva un’elaborazione di contenuti scientifici e sociali, piuttosto che il fantasticare su nuovi e lontani mondi. L’esoterismo delle sue visioni, di cui Più che umano è esemplare di riguardo, era più attinente ad una precisa percezione della realtà e alla sua trasposizione in una serie infinita di metaforiche rappresentazioni. Dove scegliere un romanzo capace di sintetizzare ed esprimere in un colpo solo tutto ciò, la scelta non potrebbe che cadere sull’articolatissimoPiù che umano, scritto nel 1953 e rivisto poco prima di morire. L’essenza stessa di Più che umano è emblematica: alla base della metamorfosi, c’è una sottile apologia degli outsider perché i protagonisti, nonostante l’impressionante dote di poteri mentali di cui dispongono, rimangono ancorati ai legami irrisolti dell’infanzia. Visti da vicino sono come “una banda musicale che marcia insieme: ognuno suona uno strumento diverso, con una tecnica diversa e producendo note diverse, ma il tutto forma un’unica cosa che si muove all’unisono”. Con tutte le sue valenze simboliche, questa non trascurabile proprietà ad accorparsi è la leva principale della trama di Più che umano perché alimenta il processo verso la definizione di un altro essere, comprensivo di tutte le facoltà di partenza, ma anche di una congenita fragilità. Scavare dietro le apparenze, vedere oltre la cortina fumogena delle abitudini e della quotidianità è la prima delle ossessioni di Theodore Sturgeon perché la nuova creatura “era un misero esempio di uomo, ma era un uomo; e quelle erano le voci dei bambini, dei bambini molto piccoli, che non avevano ancora imparato a rinunciare al tentativo di essere ascoltati”. L’altra, direttamente conseguente, è scoprire il difetto della normalità perché anche quando la piccola comune metafisica di cervelli in collegamento funziona a pieno regime interviene una lacuna, un piccolo e devastante scarto di lato che improvvisamente riporta tutti, lettore compreso, in quel “un luogo interiore, appartato, dove il legame tra parola e significato non arrivava”. A confronto di molta della pseudoletteratura (fantascientifica, e non) di oggi, il costante e rutilante sovrapporsi delle storie e dei personaggi, nonché delle loro comunicazione telepatiche potrà risultare ostico o indigesto, ma molto dipende dal fatto che, un po’ come gli stralunati bambini di Più che umano, anche i libri amano essere ascoltati. Per farlo serve quella voce che è poi il senso ultimo della fantascienza (ma anche della letteratura, con ogni probabilità) e che Theodore Sturgeon insegue riga per riga, parola per parola: l’emozione dello stupore, e  niente di più.

1 commento: