mercoledì 25 gennaio 2017

Mike Davis

Mike Davis parte da molto lontano a delineare quella che chiama La dialettica del banale disastro, dove per comune e consolidata accezione un disastro non è mai banale, è (o, almeno, dovrebbe essere) sempre eccezionale. L’ossimoro in sé è usato da Mike Davis per spiegare, anzi, per introdurre le Geografie della paura da un versante inaspettato, quello delle parole, della percezione, della comunicazione, delle ricostruzioni e delle leggende. Cataclismi, alluvioni, siccità, incendi, tornado, fenomeni climatici estremi, rari o frequenti che siano, non sono allineati uno dopo l’altro per evocare chissà giudizio universale o fine del mondo che sia, ma per sottolineare come l’intervento umano alias l’urbanizzazione a tappe forzate abbia generato un’aberrazione del luogo nella forma di una città che non è una città ovvero è diventata “un falso paesaggio che celebrava una storia fittizia”. La diretta conseguenza di questo primo salto carpiato nella dialettica è che “la costruzione del disastro naturale è in gran parte celata da un modo di pensare che al tempo stesso impone false aspettative sull’ambiente e quindi giustifica le delusioni inevitabili come altrettante dimostrazioni di una natura maligna e ostile”. Più chiaro di così, è impossibile ed è Los Angeles la dimostrazione di come “l’umanità ha conquistato la natura invece di adattarcisi”, una definizione di Richard Lillard che d’altra parte collima con “la sensazione di un disastro imminente” evocata da Stephen Pyne. La sensazione è confermata dall’imponente ricerca, dalla mole delle statistiche e dal rigore delle analisi che porta Mike Davis a sostenere: “che la paranoia riguardo la natura distoglie l’attenzione dei più dall’ovvio dato che Los Angeles si sia messa volutamente sulla traiettoria dei guai. Per generazioni intere l’urbanizzazione spinta dagli interessi di mercato ha dimenticato ogni buon senso ambientale”. Guardandolo dall’alto, lo “sprawl urbano” richiamato da William Whyte, non è soltanto la dispersione senza coordinate, pianificazioni o confini della metropoli. E’ una sorta di deprivazione sensoriale dell’essenza del territorio, che introduce quella pericolosa ambiguità che Kenneth Hewitt riassume così: “La maggior parte dei disastri naturali costituisce un aspetto caratteristico e tutt’altro che accidentale dei luoghi e delle società in cui si verifica”. Va compreso nel contesto anche il rapporto con la flora e la fauna perché l’ecosistema californiano come scriveva Carey McWilliams è “un’isola sulla terra”, con tutto quanto ne consegue. Se l’allevamento, la caccia e più in generale la convivenza con il resto del mondo animale ricorda i romanzi di Cormac McCarthy o Butcher’s Crossing di John Williams o Il figlio di Philipp Meyer, ci sono variazioni sensibili e imprevedibili: “Il terrore da puma, panici simili di fronte a serpenti sulla spiaggia e altri strani fenomeni paranaturali (compresi i coyote mangiarifiuti, gli orsi neri nelle vasche da bagno, gli scoiattoli apportatori di epidemie, le api assassine e anche i vampiri succhiacapre), deve essere preso sul serio in quanto sintomo di una crisi più ampia tra la metropoli e il suo ambiente”. Non di meno il rapporto tra gli esseri umani, visto che tra le Geografie della paura viene inserito anche l’allarmante demografia della popolazione carceraria. Le condizioni dei detenuti, il peso dell’istituzione in sé sui bilanci, l’intervento privato (anche in un campo molto delicato come l’amministrazione della giustizia) e la militarizzazione dell’ambiente si pongono come ultime e definitive traduzioni delle Geografie della paura che alla fine sono riassunte da Jeff Unruh in una verità che appare persino ovvia: “La topografia non è un caso”. La distopia di Los Angeles diventa comprensibile allora solo attraverso la fantascienza, ovvero Blade Runner, ma la spettacolarizzazione dei disastri (siamo a Hollywood, dopo tutto) non è solo la versione fiction delle Geografie della paura, perché come precisa Mike Davis, “l’industria dello spettacolo ha invertito la decadenza del vecchio splendore in un nuovo splendore della decadenza”. Nel finale si concede anche una postilla vagamente poetica, ma non meno drammatica nel ricordare che Los Angeles vista dal satellite nella primavera del 1992 era “un’anomalia termica”. E’ lì, in quelle Geografie della paura, che si discute addirittura se non sia il caso di privatizzare l’industria degli incendi, perché certe logiche non si fermano davanti a niente, nemmeno di fronte all’apocalisse.

domenica 22 gennaio 2017

Henry Miller

Propiziato da Anaïs Nin, siglato con il dono di Seraphita di Balzac, l’incontro tra Conrad Moricand e Henry Miller condensa e celebra un momento singolare nella storia della cultura occidentale. A Parigi, su cui incombeva l’avvento della seconda guerra mondiale, si era data convegno una variopinta umanità con lo scopo (nel caso ne servisse uno) di “rovesciare i valori costituiti, del fare del caos che lo circonda un suo ordine che sia il suo proprio, di seminar fermento e discordie sì che, per un rilancio emotivo, quelli che sono morti possano essere restituiti alla vita”. Lo stesso Henry Miller si considerava “un espatriato da Brooklyn, un francofilo, un vagabondo, uno scrittore appena all’inizio della carriera, ingenuo, entusiasta, assorbente come una spugna, pieno di interesse per ogni cosa e, in apparenza, privo d’ogni paura”. Con Moricand nacque un’istintiva complicità, dovuta alla comune passione per i voli pindarici, per la fame di arte, in tutte le sue forme, e per una concezione della vita libera da regole e luoghi comuni. Parigi combacia in gran parte con il Paradiso perduto, dove Moricand vede in Henry Miller, “un angelo circondato dalla fiamme”. E’ un’immagine che rende l’idea di “sfruttare al massimo la situazione! Ed era quello che facevamo, noi che tenevamo duro fino al colpo di sirena dell’ultima nave”. Ormai è questione di settimane e con un saggia decisione Henry Miller (“Non aspetto che gli unni vengano a scovarmi”) se ne va in Grecia, ultima tappa prima di tornare all’incubo ad aria condizionata. Negli anni del conflitto, Moricand resta in Francia, solo e stremato, finché, una volta finita la guerra, Henry Miller non lo invita in America. Il libro in sé è inconcludente nell’elencare le traversie della vita dissoluta di Conrad Moricand e della sua permanenza a Big Sur che (a dispetto della sua fama) non è mai stato un luogo agevole. Detto questo, Moricand è anche l’archetipo di un mondo dove la dimensione dell’arte permea qualsiasi cosa diventando “un enchaînement che non era solo stimolante ed eccitante ma spesso allucinante”. E’ un elemento del Paradiso perduto che peserà: Conrad Moricand è un ospite complicato, è assorbito dall’astrologia e dall’occultismo, ossessionato dalle espressioni artistiche non di meno che dall’ozio. Ha il suo bagaglio di idiosincrasie e l’America, una volta smaltita la sbornia, diventa una gabbia. Comincia a diventare scomodo e irritante, anche perché Henry Miller ha libri da scrivere e una famiglia (tutto sommato) da mandare avanti. Il confronto è serrato, cerca di rispondere, dove può, alle richieste di Moricand, fornendogli, oltre al sostentamento essenziale, quelle piccole cose (le sigarette, il vino) che non fanno altro che acuire la nostalgia per quel Paradiso perduto che era quella Parigi, e che ormai non c’è più. Miller se ne rende conto perché dice: “E’ solo quando smettiamo di cercar di vedere, quando smettiamo di cercar di sapere, che vediamo e sappiamo sul serio”. In una giornata radiosa si confrontano di fronte all’oceano e Moricand gli dice che gli “manca il marciapiede sotto le suole”, che si sente un recluso, che soffre l’allergia e via via sfodera un lungo cahier de doléances. La risposta, nonostante l’energia profusa, è insoddisfacente, ma è evidente che Miller aveva preso coscienza che un’epoca era finita, che ormai stava cambiando tutto, e gli dice, tra l’altro: “Al mondo non c’è niente che non va. Quello che non va è il modo in cui noi lo guardiamo”. Troppo poco per Moricand che se ne andrà tra mille peripezie, insistenti richieste di denaro e di supporto e un (altro) paradiso perduto per sempre. Come riassume Arthur Hoyle nella biografia di Henry Miller, “alla fine Moricand fu arrestato dall’ufficio immigrazione degli Stati Uniti e rimpatriato nell’autunno 1949; morì cinque anni dopo a Parigi, ma non prima di aver pubblicato altri strali contro Miller in Francia”, comunque ormai “solo come un topo, nudo come l’ultimo dei clochard”, come scrisse Théopile Briant, l’unico amico che gli era rimasto.

giovedì 19 gennaio 2017

James Ellroy

James Ellroy sguazza con perfida allegria nelle nuove e antiche paure riemerse dopo l’11 settembre 2001. Gli viene spontaneo e naturale ambientare la Jungletown Jihad nel substrato di una città che in effetti non è una città, è un’espressione senza forma di una moltitudine di ghetti e roccaforti. La sua conoscenza della street life di Los Angeles gli permette di muoversi a suo agio, e non solo, perché James Ellroy traduce in narrativa, nella sua singolare, sincopata e brutale narrativa, quelli che Mike Davis in Geografie della paura chiama Impulsi omicidi e panorami in fiamme, come se le pulsioni di un’intera una “metropoli in fase esplosiva”, come la definiva William Whyte filtrassero attraverso il terreno e contaminassero le persone e i personaggi. L’impatto, va da sé, è durissimo: le contrazioni di una lingua che, strapazzata e storpiata pezzo per pezzo, parola per parola, diventa gergo, slang, invettiva collimano alla perfezione con la trama psicotica di Jungletown Jihad. Succede che Rick Jenson scomodo detective del dipartimento di di Los Angeles incrocia un contorto progetto terroristico finanziato dal mercato pornografico nelle sue peggiori perversioni. Siamo a Hollywood, dopo tutto, e il mondo fittizio e surreale del cinema (dove nel frattempo stanno provando a mettere in piedi un film su Ann Sexton) è comunque un’altra forma di vita rispetto al resto del pianeta. Rick Jenson non ci casca, si difende con metodi meno che ortodossi e men che meno istituzionali, ripara da Donna Dohanue, una femme fatale tra le più in vista di sempre nella fiction di James Ellroy e non fa distinzioni tra “delitti ignobili” che abbiano non abbiano una matrice politica. Nella sua immaginazione sono tutti “farabutti con fini criminali” e James Ellroy non restano alternative se non crogiolarsi nell’infimo e alzare il tiro: il racconto è scorticato, le frasi sono bruciate e masticate, il tono è per niente corretto, anzi, è più spudorato che mai. La considerazione nei confronti dei connazionali (per non dire del resto dell’umanità) è al minimo storico, il diluvio di alcol e droghe inarrestabile, lo svolgimento brutale, tambureggiante, senza respiro. Se lo si asseconda, Jungletown Jihad può anche considerarsi un’apoteosi nello stile di James Ellroy con i suoi sarcastici neologismi, la sua sprezzante disposizione verso regole, limiti e definizioni. Ovvero una logica autocelebrazione di James Ellroy, solo che Jungletown Jihad annuncia molto, forse troppo perché rimane inchiodato sul punto: la storia sembra contorcersi su se stessa, elenca con una frenesia cinematografica (e anche con una certa fretta) i movimenti nelle strade, poi torna con insistenza a Rick Jenson e a Donna Dohanue, come se ci fosse qualcos’altro da raccontare che però deve essere andato perso nelle strade di Los Angeles. Pare evidente che la forma ridotta di Jungletown Jihad non è sufficiente: James Ellory ha bisogno di molto più spazio e di molto più tempo per avvelenare e ipnotizzare il lettore a cui, in questo caso, resta soltanto un’indefinita sensazione di incompiutezza.

sabato 14 gennaio 2017

Andre Dubus

Nei Voli separati di Andre Dubus, la sua prima raccolta di racconti, di fatto un esordio, sono tutti fuori posto, ma in qualche modo si accertano di avere un margine di manovra, per quanto minimo. Vorrebbero avere il “cuore leggero”, ma in si scontrano sempre con un ostacolo imprevisto o si trovano incastrati in “ostinati cerchi concentrici di delusione e amarezza”, perché “la forza centrifuga della loro evasione li porta sempre più lontani dal centro di se stessi”. La definizione geometrica ha un suo senso. Quando, nel racconto che presta il titolo alla raccolta, uno dei protagonisti dice che è “meglio giocarsi una vita alla volta che non tutte e due insieme”, in riferimento (appunto) ai Voli separati, diventa chiara la connessione, la rete invisibile che lega i racconti. Non è soltanto perché i protagonisti tendono a sovrapporsi, fluttuando da una storia all’altra, come Miranda in Affondando e poi in Miranda sulla valle, o scambiandosi un tema sensibile come la masturbazione (maschile) in Se conoscessero Yvonne e quella (femminile) ancora in Voli separati, ma perché, come dice Andre Dubus, “tutte le storie iniziano da un dolore personale, autobiografico, che vuoi raccontare, e poi, mentre lo racconti, la storia, certe azioni, cambiano, e i personaggi diventano loro stessi e non ti appartengono più. Così finisci per avere una prospettiva diversa”. L’archetipo è Il disertore che sintetizza un vasto elenco di tradimenti, separazioni, fratture, poi delineato in abbondanza nelle storie successive. In particolare, per Il disertore c’è una rottura multipla: con la moglie, con la famiglia, con il corpo dei marines, con l’amante e per finire con se stesso. Nello stesso modo, la precisione, “come in Faulkner”, di Nella mia vita decide il registro generale di Voli separati perché, nonostante la trama drammatica (uno stupro, una condanna a morte), è la celebrazione del senso di Andre Dubus per le luci. Un’ossessione che annota con metodo e scrupolo tutte le sfumature dell’alba e del tramonto che entrano nelle case, tutti i filamenti naturali o artificiali che filtrano all’inizio o alla fine della notte. L’occhio di Andre Dubus non vede solo le luci: sa delineare anche le ombre, le identifica una dopo l’altra, le colloca, le ritaglia. E’ uno scrittore capace di infondere più dimensioni alla storia pur tenendo la trama sempre in evidenza, in superficie, davanti a tutto, senza una divagazione inutile o posticcia. Ci sono lunghi passaggi, in tutti i racconti di Voli separati, dedicati ai riflessi, alle varianti e alle angolazioni che, in fondo, sono soprattutto modi per ricordare che “l’amore è anche tempo”. I racconti sono lancinanti e nella loro rappresentazione delle “guerre periferiche” tra mogli, mariti e amanti, Andre Dubus si concede “un distacco che diventa lussuria”. Nel senso che la sua posizione ravvicinata, meticolosa, lo porta prima a maneggiare l’intersecarsi dei rapporti, quasi a scioglierne i nodi inestricabili, poi lo vede tuffarsi dentro senza risparmiare nulla ai suoi personaggi e di fatto neanche a se stesso. Le sofferenze sono palesi, scoppiano nelle pagine, perché la scrittura di Andre Dubus procede a scatti, furiosa e sincopata come i movimenti dei suoi personaggi. Tutto ciò basta e avanza, ma poi la progressione matematica culmina in quello che sta già diventando un romanzo vero e proprio, Non abitiamo più qui. Un racconto straziante nell’intreccio tra due coppie di coniugi e amanti, un’equazione che non riesce, un diluvio di alcol e malinconia invernale. Per inciso, la sequenza dei lavori domestici all’inizio di Non abitiamo più qui è quasi rap ed è qualcosa di travolgente, almeno quanto una scena muta, con un gorilla che fa rimbalzare la tristezza sulla pagina. Il ritmo è costante: un battito insistente, modulato con cura, ma anche con una spontanea aderenza agli eventi e alle contorsioni dei suoi protagonisti, travolti dal desiderio prima e dal rimpianto poi. Dove non arriva la luce, arriva la musica: Hank Williams (alla radio) e poi soprattutto i dischi, Dave Brubeck, Gerry Mulligan, Janis Joplin, Paul McCartney, Crosby, Stills, Nash & Young, Judy Collins, Joan Baez, Simon & Garfunkel, Beatles, Rolling Stones. In questo Voli separati è coetaneo e coincide (e non soltanto per la colonna sonora) con le Gelide scene d’inverno di Ann Beattie, annata di gran classe, quella del 1975. Con la sublime differenza di Cannonball Adderley, che doveva essere il protagonista di una serata di Jack, Terry, Edith, Hank in Non abitiamo più qui. Andre Dubus non la cita, ma la sua Mercy, Mercy, Mercy resta pur sempre la miglior dedica possibile, valida per ogni cuore spezzato, e per tutti i Voli separati.

martedì 10 gennaio 2017

Harry Smith

Personaggio eclettico, eccentrico ed esoterico, Harry Smith è stato un mago (davvero) ma senza trucchi o effetti speciali, soltanto il gusto e l’istinto dnel seguire il proprio pensiero, in tutte le divagazioni, le allucinazioni, le visioni possibili. Nella sua dimensione di ricercatore disordinato, di bricoleur imperfetto, di filmaker a corto di budget, di intellettuale senza definizione e senza schema viene incanalata un modello di conoscenza non accademica, non razionale, non raziocinante, non finalizzata a una produzione. Era incomprensibile allora, figurarsi oggi e infatti uno che l’ha conosciuto bene, il fotografo Robert Frank, ha detto: “Era avanti a tutto e a tutti”. Nel caos primordiale di Harry Smith c’è vitalità, c’è stupore, incontaminato e naïf finché si vuole, ma molto creativo nella sua artistica percezione dell’esistenza. Lo spirito dell’improvvisazione si nota nell’immagine di Harry Smith che tiene il tempo di Thelonious Monk cercando di ricostruirlo battuta per battuta (auguri). Lo si vede anche nella fantasmagorica eredità che si è lasciato alle spalle perché Harry Smith è stato soprattutto un collezionista. Ha raccolto di tutto, e senza una particolare giustificazione scientifica o storica: “Lascerò al futuro il compito di capire il significato di tutte queste uova, delle coperte, dei patchwork dei seminole che non guardo mai, e i dischi che non ascolto mai. Comunque è giustificabile quanto qualcosa che si fa, quanto qualsiasi tipo di ricerca, ed è più giustificabile di cose più violente, come litigare con qualcuno, o diventare un pescatore per l'esportazione. E' un modo di ingannare il tempo nel modo più innocuo possibile, in modo non violento. Se qualcuno vuole essere violento, lo avviso dei cinquemila dollari di uova fradice, pronte ad esplodere. Non deve esserci violenza qui”. Bisogna però notare che proprio dai suoi bizzarri archivi discografici è scaturita l’Anthology of American Folk Music, la pietra d’angolo della riscoperta della tradizione della cultura popolare americana. Un ingente patrimonio che ha determinato una svolta importantissima e una fonte inesauribile di sollecitazioni, a cui tutti hanno attinto. E’ senza dubbio il risultato più eclatante ottenuto dalle sue stravaganti collezioni e ricerche (per la cronaca la ristampa ha vinto un Grammy nel 1991), ma American Magus, pur con il suo carattere variopinto (dalle interviste alle note di copertina dell’Anthology, contiene moltitudini), rende omaggio a tutta la complessità di un personaggio la cui importanza è ancora in gran parte oscura e inesplorata. Non vedendo distinzione tra arte e vita, era brillante anche nel suo candore, quando scriveva in un nota al Catalogo N. 3 della Film-Maker’s Cooperative, 1965: “Per coloro che sono interessati a questi film: dal N. 1 al N. 5 vennero fatti sotto l’effetto dell’erba; il N. 6 con eroina (faceva splendere il sole) e stimolanti; il N. 7 con cocaina e stimolanti; dal N. 8 al N. 12 con quasi tutto, ma principalmente in uno stato di veglia allucinata, e il N. 13 con pillole verdi avute da Max Jacobson, pillole rosa da Tim Leary, e vodka; il N. 14 con vodka e porto bianco italo-svizzero”. Se ne è andato in una camera del Chelsea Hotel, naturalmente. Facile condividere la comprensione e l’affetto di Allen Ginsberg (più di tutti), Jerry Garcia e Bob Dylan che attinse dall’Anthology of American Folk Music e forse ne comprese la portata più di chiunque. Harry Smith non ricambiò molto la stima. Una notte, proprio a casa di Allen Ginsberg che lo ospitava, sbatté la porta chiedendo a Dylan di smettere di far rumore. L’aneddoto, confermato dai presenti, oltre a essere emblematico degli sbalzi d’umore di Harry Smith, è curioso perché Dylan stava facendo ascoltare Empire Burlesque. Forse Harry Smith non aveva tutti i torti, anche perché il titolo, a ben vedere, sembra fatto su misura per lui.

sabato 7 gennaio 2017

Flannery O'Connor

Nella perfezione dell’incipit, Il cielo è dei violenti trova subito una collocazione precisa e inevitabile: l’ambientazione rurale (il campo di granoturco), la povertà come una condizione rigida, in cui si svolge tutto, in particolare dove “Tarwater portava il suo isolamento come una cappa, se l’avvolgeva addosso quasi fosse un segno distintivo di elezione”. Tarwater è cresciuto con un vecchio ossessionato dalla fede e dalle sue visioni che, alla sua morte, ricorda solo che un profeta serve “a riconoscere che qualcuno è un asino o una puttana”. Flannery O’Connor è (quasi) blasfema quando dice che “il mondo è stato creato per i morti”, ma d’altra parte è altrettanto credibile quando ne consegue che: a) “nessuno è più povero dei morti”, e che, soprattutto, b): “ci sono un milione di volte più morti che vivi, e i morti restano morti milioni d’anni più di quanto i vivi restino vivi”. Ecco che Tarwater prova a “scavare la fossa sotto il fico perché il vecchio avrebbe fatto bene ai fichi”, ma non riuscendo a completare l’opera, incendia la misera casupola in mezzo ai boschi, con il cadavere e i suoi ormai inutili arnesi. Quando bussa alla porta di Rayber, il maestro che vive con Bishop, un figlio menomato, sgorga un complessa triangolazione tra l’ombra del vecchio, il maestro e lo stesso Tarwater, su cui grava il rilevante peso di scelte inevitabili, delle costrizioni della vita e di un feroce scontro tra fede e ragione, tra mistero e dubbio. Il cielo è violento è un capolavoro livido ed estremo: le contorsioni di un linguaggio umile, economico, con un vocabolario limitato, eppure espressivo e fortissimo nel rappresentare i contrasti tra i protagonisti almeno quanto i loro conflitti interiori. “Sono soltanto parole”, ma le profezie (da un parte) non meno dei test e delle analisi (dall’altra) conducono alla privazione, allo strazio, alla follia e nella costruzione di Flannery O’Connor hanno una forza ipnotica, proprio nel suo calibrare i passaggi dei personaggi, la lunga discesa nelle tenebre dove, una volta di più, sono ancora gli opposti (l’acqua e il fuoco) che si sviluppano, simbolici e teatrali, a sottolineare i paesaggi nel finale. E’ risoluta, convinta, decisa, Flannery O’Connor nel seguire i protagonisti, scrupolosa nel sottolinearne i difetti e le idiosincrasie. Non gli concede nulla, perché sono combattuti, divisi e piegati, ma li accompagna e li asseconda, spiegandone così i motivi portanti delle loro caratteristiche: “Non mi interessano le sette religiose in quanto tali. Quello che mi interessa è l’individuo religioso, il profeta dei boschi. L’eroe de Il cielo è dei violenti è il vecchio Tarwater, e io sono con lui al cento per cento”. Tarwater ha un’intelligenza limitata (anzi, concentrata) e sofferente, come se l’istinto di sopravvivenza fosse frutto di un lento apprendimento ed è la migliore espressione di quella che Flannery O’Connor chiama “l’atroce chiarezza”. La violenza è scandita attraverso i dialoghi, in particolare quelli tra Rayber e Tarwater, che sono sferzanti. Quando Rayber dice a Tarwater: “Io ti ho salvato perché tu fossi libero, perché fossi te stesso e non un’informazione dentro la tua testa”, compie un primo, decisivo passo verso la dissoluzione di entrambi. “Pensi della scatola o nella testa?” chiede Tarwater, e la domanda è ambivalente perché è rivolta a Rayber, che ha bisogno di un apparecchio acustico per sentire, ma nasconde una perfida e sottile allusione al figlio. Con matematica precisione, Flannery O’Connor associa alle tre figure centrali e stanziali, altrettanti personaggi secondari. Il primo viaggiatore, il rappresentante di tubi ovvero Meeks, giunge ben presto alla conclusione che Tarwater era “abbastanza suonato e abbastanza ignorante da essere un buon lavoratore, e lui aveva bisogno di un ragazzo energico e molto ignorante da metter sotto a lavorare”. Notare, en passant, l’uso delle reiterazioni, come uno schiocco di dita per tenere sveglio il lettore. Ci saranno altri due incontri di Tarwater nella sfumatura conclusiva che incupisce Il cielo è dei violenti: il camionista che, indifferente, si addormenta sul bordo della strada e l’autista che lo deruba e ne abusa, proprio ai confini della radura dove il rogo ha bruciato il vecchio e la sua tragica dimora. Non resta nulla, non un pensiero, non una preghiera. Cala il sipario, buio, silenzio. 

martedì 3 gennaio 2017

Mezz Mezzrow

Mezz Mezzrow, che nasce “coetaneo del secolo ventesimo”, ha trascorso una vita intera a scoprire che “jazz e libertà sono sinonimi”. Comincia che è ancora un bambino a seguire il ritmo della street life, lo slang dei bassifondi, e quell’utile consiglio per cui “se non sapete far soldi, fatevi almeno degli amici”, che diventerà poi il classico Makin’ Friends di Jack Teagarden. La sua è “una tipica storia americana, ma capovolta”, nel senso che l’unica scuola che ha frequentato è stata quella della galera, che ricorderà soprattutto per il condannato a morte che andava incontro al suo destino con Dear Old Girl nell’aria. La musica c’è sempre, è l’unico linguaggio condiviso, una forma di sollievo e di piacere, “un geyser di emozioni in ebollizione, che spalanca tutte le finestre e permette ai nostri istinti, alle nostre idee, ai nostri sentimenti di sgorgare liberamente”. E’ anche l’ultima spiaggia per Mezz Mezzrow che comincia a suonare e a scrivere perché “nel 1926 la danza di San Vito, punteggiata dal ritmo dei mitra, si diffuse per tutto il paese. Dal tramonto all’alba non si fece che suonare il jazz, bere whisky di contrabbando e abbandonarsi alla pazzia”. E’ un’epoca bollente e selvaggia che vede Mezz Mezzrow dividersi tra sassofono, clarinetto e valanghe di marijuana che, a lungo, costituirono la sua principale fonte di sostentamento. Il doppio lavoro non gli impedisce di ritrarre da vicino i protagonisti, con minuziosa passione. A Bessie Smith dedica un lungo omaggio che si conclude così: “Bessie era una vera donna, tutte le donne del mondo riunite in una persona sola”. Più colorito, ma non meno affettuoso il ritratto di Bix Beiderbecke che “suonava una cornetta che portava con sé senza astuccio, un corto e grosso affare inargentato, che sembrava fosse stato raccolto proprio in quel momento dalla spazzatura. Mentre suonava, s’era piantato davanti a me, perché noi eravamo i due strumenti di spalla, e le esalazioni di whisky che mi soffiò sul naso per poco non mi fecero svenire; ed anche la musica che usciva dal suo strumento sembrava sotto spirito”. Sono altrettanto vivide e sanguigne le rappresentazioni della legione di musicisti che Mezz Mezzrow convoca racconta snocciolando i suoi blues, da Jelly Roll Morton a Sidney Bechet, da Gene Krupa ad Alberta Hunter fino a Louis Armstrong, che “era un genio, e avrebbe saputo creare della grande musica anche avendo a sua disposizione solamente un’asse da lavandaia e un pettine”. Attorno a questi indimenticabili (e geniali) protagonisti, si sviluppa tutto “un mondo equivoco”, come lo definisce Mezz Mezzrow, dove artifici ed espedienti per la sopravvivenza dei jazzisti (in un aneddoto, capita che vengano pagati in anatre, ancora da cucinare) devono sopportare la convivenza forzata con i gangster, la somma incomprensione delle loro idee, per non dire le tentazioni degli oppiacei. Tra Chicago, Detroit, New York, New Orleans e Parigi, diario di bordo di Mezz Mezzrow resta una cronaca cruda, spontan e grezza finché si vuole, ma molto sincera, anche nella sua limitata, e ben precisa, collocazione temporale: “Il 1927 e il 1928 furono gli ultimi anni fortunati del vero jazz, gli ultimi in cui un solista, dotato di vera ispirazione, potesse ancora abbandonarsi alla sua vena e conquistare il pubblico, che lo ascoltava a bocca aperta. Ma quel periodo stava per concludersi, per diventare un capitolo nella storia del jazz, anzi la favola di un’età mitica”. In effetti è proprio così, e alla fine soltanto la musica è rimasta coraggiosa, intrepida, inalterata, splendida perché, come racconta Mezz Mezzrow, “è sgorgata tutta da nostro entusiasmo, dal nostro vivo senso di amicizia, proprio come la musica nata quaranta o cinquant’anni fa a New Orleans, e sempre nuova. E questo è il tipo di musica che continueremo a incidere sui nostri dischi, finché riusciremo a respirare, o finché il nostro vecchio cuore non si stancherà di battere”. L’ultima tappa, nella Big Easy, in realtà riporta all’inizio di tutto ed è la chiave di volta nel commiato di Mezz Mezzrow: “Questo era quel che New Orleans voleva dire: era una celebrazione della vita, respirare, piegare i muscoli, sbattere le palpebre, leccarsi le labbra, malgrado tutto il male che il mondo può farvi”. Questo è il blues, questo è il jazz.