sabato 30 dicembre 2017

Lawrence Ferlinghetti

Affrontando con coraggio “il flusso della storia interrotto da catastrofi” (va ricordato che Americus risale al 2004), Lawrence Ferlinghetti celebra, una volta di più, la capacità della poesia di promuovere “una mediazione fra noi e la realtà di ogni giorno”. Ferlinghetti non sono percepisce quanto ne abbiamo bisogno (parecchio), ma individua anche un ideale collocazione, dove la poesia può funzionare da salutare raccordo perché “la nostra memoria saccheggia il passato per fare il presente, sogna attraverso i secoli, baratta il tempo con il tempo dei verbi, mentre la cinepresa-occhio-segreto-della-mente rallegra e preoccupa il genere umano (poiché la pallida agenda del pensiero ci rende tutti codardi)”. La lucidità di questa premessa è più che sufficiente a capire la volontà di Americus nel rendere omaggio a Charles Olson (Maximus è una delle principali fonti d’ispirazione per il titolo), William Carlos Williams (Paterson, in particolare), Ezra Pound, Mark Twain, Gertrude Stein, Thomas Wolfe. Sapendo che ciascuno è “un palinsesto del passato di tutti”, le citazioni sanno essere implicite ed esplicite, persino allegre quando Ferlinghetti dice che Omero è un rapper e Walt Whitman un soulman. I continui richiami all’espressione artistica, in generale, e a quella poetica nello specifico, riconducono comunque alle origini, alla storia e alla colonizzazione di un continente, l’America, vista come “il più grande esperimento terrestre con la più grande chance di creare un essere umano più alto, un’anima o animo incondizionati, gambe storte e sesso incerto, un tipo strambo sulla punta avanzata della civiltà, viso pallido o mestizo a suo agio sui due continenti d’America prodotto da molte culture e calamità”. Dato che la poesia “serve molti padroni, non tutti santi”, la riflessione tende a spostarsi, con un piglio maturo e lirico, dal piano pubblico, verso un tono più personale e crepuscolare visto che “la vita continua a rotolare” e la memoria è “una spola fra passato e presente un treno dai finestrini sbarrati con gli specchi spaccati”. Il refrain del tempo e della storia ritorna come il tema in una suite jazzistica, eppure, anche nel formato ridotto ed essenziale, Americus contiene molto dell’idea di poesia di Lawrence Ferlinghetti, e nella sua parte centrale elenca i tratti, le virtù, le necessità e la natura di una scrittura la cui “funzione è smascherare con luce radiosa” e che “appaga un bisogno e ricompone la vita”. L’incrollabile esuberanza, nutrita da fame e passione, lo porta a decantare quella poesia che “in quanto lingua originaria venne prima della scrittura e ancora risuona in noi, musica muta, musica incompiuta” e con ciò ammirando di nuovo & per sempre la primordiale unità tra musica e poesia, Ferlinghetti si erge tra i “propagatori di epopee velleitarie” e si fa accompagnare da Dante e Platone, Virgilio e Socrate, Cervantes e Thoreau, Dario Fo e Jack Kerouac. Una compagnia di ineguagliabili ciceroni che in Americus trova la sua strada, dove la creatività è sempre in agguato, mentre la poesia si snocciola in un flusso esotico, brillante e contagioso.

giovedì 28 dicembre 2017

Patti Smith

Un ritratto dell’artista giovane con più cose da dire che strumenti per dirle: Babel condensa il periodo più importante di Patti Smith, quello che va dal 1974 al 1978, quando il suo grido di battaglia era, come scriveva in Neo Boy: “Tutto è merda. La parola arte deve essere ridefinita. Questa è l’età nella quale ognuno crea”. Babel risolve l’incognita fecale con una gamma impropria di soluzioni: gran parte delle canzoni confluite in Radio Ethiopia ed Easter, frammenti di prosa, appunti, poesie, stralci di un diario e di un epistolario che sono ancora un work in progress. Sono tempi vorticosi e travolgenti e Babel ne è l’immagine fedele, un riflesso naturale e spontaneo con tutto il disordine e il caos di un’alluvione di parole in cerca di un casa, ancora indisciplinate, non assoggettate, nemmeno uniformi. Un canovaccio che raccoglie l’energia e l’entusiasmo da cui poi Patti Smith ha attinto proiettando la sua scrittura su forme più organiche, limate e adeguate alle riflessioni della maturità ma che in Babel erompe nella certezza che “il potere della bellezza viene sottovalutato”. Nell’irruenza dei vent’anni, Patti Smith mette in mostra con forza sogni e visioni ricorrenti, lo slang delle strade di New York e quell’anelito disperato per l’espressione artistica in ogni sua variante che l’ha sempre distinta. “Il montaggio di esperienze” richiama gli eroi e i punti di riferimento che resteranno inamovibili: Rimbaud, Genet, Brancusi, Bresson, Caruso (“L’opera è verità e Caruso la regina”), Pasolini (“Vittima dei fascisti e di marchettari e della purezza della sua arte”), per affermare con convinzione che “siamo tutti figli di Jackson Pollock”. Sono colonne portanti dell’ambizioso impianto di Babel che si ritroveranno spesso più in là negli omaggi di Patti Smith perché “noi viviamo per un periodo di tempo lunghissimo nella nostra immaginazione”, e quella è la materia di cui ci nutriamo. Lo stile, la forma in sé, risente da una parte di un convitato di pietra che aleggia su ogni pagina, dove tagli e cuciture riportano a William Burroughs, e dall’altra dalla sanguigna urgenza di Patti Smith che lancia segnali inequivocabili: “Ho voglia di muovermi subito, di innamorarmi”. L’anima e l’adrenalina di Babel sono quell’irruenza che poi è sfumata con il suo ritiro dalle scene, la grande bandiera americana che adornava il palco ripiegata un’ultima volta, le chitarre riposte, una famiglia a cui dedicare il futuro. Nell’immediato di Babel c’è il rock’n’roll che “come la scultura, è il corpo solido di un sogno. E’ un’equazione di volontà e visione”. All’appello rispondono l’onnipresente Dylan (e i suoi animali), il Patti Smith Group, Tom Verlaine, i Blue Öyster Cult che riprenderanno Fire Of Unknown Origin, Little Richard e Mick Jagger, o meglio tutto l’universo irraggiungibile dei Rolling Stones con la rilettura di Sister Morphine e la dedica a Marianne Faithfull, figura eminente tra le donne di cui Patti Smith ha celebrato drammi e tributi. I ritratti delle sue eroine, Georgia O’Keeffe, Edie Sedgwick, Giovanna D’Arco, e poi Jenny e Judith, sono parti di un processo di identificazione perché se è vero che “l’arte ha bisogno di luce”, è altrettanto necessaria una voce femminile che, per logica estensione, rimanda a lei. Aveva già capito che “l’artista preserva se stesso. Mantiene la sua spavalderia. E’ intossicato dal rituale così come dal risultato”. Intuizione giusta, applicazione famelica.

martedì 26 dicembre 2017

Joni Mitchell

Una sorta di autobiografia si snoda in tre fitte conversazioni con Malka Marom, a sua volta cantante trasformata in giornalista, e amica di Joni Mitchell. L’occasione è propizia per attraversare mezzo secolo e, da un punto di vista ideale, sono due le canzoni che delimitano Both Sides, Now perché “se il passato e il presente sono intrecciati, le tue azioni recenti mettono in moto ciò che sta accadendo ora. E’ una concatenazione di eventi lunga e misteriosa”. La prima è la celebre Woodstock il cui ritornello (“Siamo polvere di stelle, siamo d’oro, e dobbiamo fare in modo di tornare nel giardino”) è la dimostrazione concreta che “si può sempre riavere la propria innocenza se si provano sessanta secondi di stupore e incanto”. Curiose, paradossali e rivelatrici le circostanze in cui è nato il simbolo di un’epoca così, come le ricorda la stessa Joni Mitchell: “Non so perché Woodstock mi commuovesse tanto. Le prime due o tre volte che l’ho eseguita in pubblico mi sono dovuta fermare, tanto ero presa dall’emozione. Credo fosse perché a Woodstock non c’ero andata ma l’avevo vista in televisione, e mi era sembrata una cosa incredibile, il fatto che in quelle circostanze la gente si fosse aiutata a vicenda”. Un punto di non ritorno si intravede in un verso di Come In From The Cold (l’album è Night Ride Home e siamo già nel 1991) che dice: “Volevo soltanto entrare a ripararmi dal freddo”. Tra questi due estremi, in Both Sides, Now c’è tutto il senso per l’arte di una donna che ha rubato alla vita, lottando con una sensibilità che “è guardata quasi con disgusto dalla società, mentre è una ricchezza, dà tante gratificazioni. Ti permette di sentire cose che gli altri non sentono, come i cani che sentono certi suoni acuti”. Una sfida costante, continua, laboriosa, spesso dolorosa, sempre faticosa, contro “la nostra modernità ignorante” in una delle sue accezioni più banali, ovvero l’industria dell’intrattenimento. La lotta per l’originalità è uno dei temi su cui Joni Mitchell si sofferma spesso e volentieri, sapendo che “le cose grandi arrivano quasi sempre sul ciglio di un errore. Quello che arriva dopo l’errore è spettacolare. Perciò se ti fissi sugli errori ti perdi la magia”. Il confronto con una carrellata di musicisti geniali e molto poco politically correct, che va da Jaco Pastorius a Charles Mingus, da Bob Dylan a Leonard Cohen, le rivela che “in questa società di specialisti, il mio destino è quello di essere considerata una dilettante”, ma forte delle letture di Kipling e Nietzsche, delle visioni di Picasso e Van Gogh, o degli ascolti di Duke Ellington, Charlie Parker e Lester Young, Joni Mitchell è riuscita a capire che “se non possiamo fare a meno di guardare l’illusione, questa si spezza. Sai sempre di star creando un’illusione, non importa quanto ti sforzi di essere sincero”. Saperlo le è servito per costruire un intero vocabolario emotivo che, proprio nelle canzoni, ha trovato la sua espressione: “Uno dei miei interessi principali nella vita è quello dei rapporti umani, delle interazioni e dello scambio di emozioni, da persona a persona, fra individui, oppure su scala più ampia, con un pubblico”. In questo caso specifico, che poi ha occupato gran parte dei risultati del suo songwriting, la voce in diretta di Joni Mitchell (“L’amore è un sentimento molto difficile da tener vivo. E’ una pianta molto fragile, ecco. E’ un sentimento particolare, perché soggetto a tanti cambiamenti. Il modo in cui lo si prova all’inizio di una storia e tutti i cambiamenti che subisce”) e quella nelle canzoni si alimentano a vicenda (“L’amore richiede tanto coraggio, l’amore si prende tanti di quegli accidenti” canta Face Lift) in un flusso inarrestabile che trova nelle parole di Both Sides, Now la sua definizione: “Ormai ho visto la vita da entrambi i lati, vincere o perdere, eppure, chissà come quel che ricordo sono illusioni, cos’è davvero la vita non lo so”. Fin troppo sincera.

domenica 24 dicembre 2017

Terry Southern

Inseguendo il gusto della sorpresa, dello scherno, dello sberleffo, Il grande Guy incarna uno spirito dispettoso e tormentato, che si diverte a irretire, provocare, stuzzicare e spargere zizzania, tutto in nome del denaro, che deve sborsare per rimediare ai danni dei suoi scherzi. Mecenate facoltoso e visionario, con interessi diversificati e risorse economiche a quanto pare illimitate, Guy Grand è annoiato e turbato da quello che è diventato e guardando i suoi colleghi di tante scorrerie finanziarie, si vede come “un riflesso della loro stessa pochezza: membro di club, personaggio da invitare a pranzo, una minaccia, un uomo la cui società rappresentava una promessa e insieme un pericolo”. A quel punto cominciano tutti gli scherzi che costituiscono la trama e la spina dorsale del breve romanzo di Terry Southern e che mettono alla prova molti luoghi comuni: proietta film rallentati e al contrario, paga dei pugili per interpretare la boxe in una chiave davvero inedita e se ne a caccia con un obice da settantacinque millimetri, un’arma impropria perché il rinculo lo sbalza a dieci metri “dove arrivava come uno straccio, ovviamente privo di sensi”. Un colpo è sufficiente a mettere in fuga tutta la selvaggina, e così finiscono anche i safari del grande Guy. Ogni volta le rappresentazioni di quello che, in effetti, è un mondo al contrario, generano stupore, imbarazzo, disorientamento, soprattutto perché non sono chiari i motivi che spingono Il grande Guy a dilapidare una fortuna in quel modo. Finché, di fronte all’ennesima provocazione, qualcuno si chiede: “E se si trattasse di una sana satira dei mass-media?”, domanda si adatta alla perfezione anche per il romanzo in sé. Comunque sia, Il grande Guy continua imperterrito e ogni volta alza il tiro, fino alla creazione di una crociera su una nave di follie, una specie di sontuosa parodia del Titanic, e alla generazione, nel capitolo conclusivo, di una caricatura degli sconti commerciali che scatena orde di famelici consumatori in cerca del negozio più conveniente, che nel frattempo è sparito o si è trasferito dall’altra parte della città. E’ quello che lascia credere il perfido meccanismo studiato da Guy Grand, almeno le folle ipnotizzate dai pressi impensabili “così potevano concludere che non si era trattato di un sogno, non solo, ma che il miracolo era ancora in corso”. La feroce ricostruzione di una società votata ai consumi e all’avidità è sempre mitigata dall’ironia e dalla una leggerezza, anche naïf, volendo, di Terry Southern, sempre disposto a un tono accondiscendente, colloquiale, poco spigoloso, umoristico, come è nella tradizione di Mark Twain o del contemporaneo Richard Brautigan. Terry Southern, in realtà, ha però una percezione critica e caustica che filtra nelle battute e negli aneddoti di Guy Grand che induce a una seria riflessione sulla concezione stessa del libero mercato, che, proprio nella sua natura, è “capriccioso”. Un modo di dire la verità, ovvero che è molto pericoloso, con una congrua dose di senso dell’umorismo, non a caso, la cifra finale che definisce Il grande Guy

giovedì 21 dicembre 2017

Andre Dubus

Quando Blind Boy Grunt alias Bob Dylan cantava The Death Of Emmett Till, rileggeva un drammatico episodio dell’agosto 1955, avvenuto nel Mississippi: di fatto un linciaggio rimasto senza colpevoli, che, con il suo grave senso di ingiustizia, ha segnato uno spartiacque nella discriminazione razziale. Uno dei versi di The Death Of Emmett Till riassumeva così l’amarezza e il disorientamento di fronte a quello spietato omicidio, e alla sua ambigua e tragica coda: “Se non dite niente davanti a una cosa come questa, contro un crimine così ingiusto, allora i vostri occhi sono pieni della terra dei cadaveri e la testa l’avete piena di polvere”. Sono parole che tornano spontanee quando, nelle discussioni dei protagonisti di Le morti in mare (il primo racconto di Un’ultima inutile serata), riappare il fantasma di Emmett Till. Gerry viene dal bayou, è cattolico, con ascendenze francesi, mentre Willie è afroamericano e arriva da Philadelphia. Insieme si trovano a condividere una cabina sulla portaerei Ranger in qualità di ufficiali della marina degli Stati Uniti. La fragile armonia che si sviluppa tra loro viene messa a dura prova da un flusso continuo di alcol, incidenti verbali, scontri fortuiti, finché Gerry non ammette il disagio: “Ho l’impressione che di notte il mondo ci abbandoni. Smettiamo di vederlo. Scompare e rimaniamo con quel poco che resta di visibile; e senza quelle distrazioni che il giorno ci rivela, la nostra vista non è solo limitata, ma si affina e si concentra su ciò che per la maggior parte di noi è il mondo, noi stessi”. Non è solo per la condizione notturna che Le morti in mare determina la natura dei racconti che seguono. E’ come se i racconti si incastrassero uno nell’altro, per via di alcuni temi ricorrenti, dalla guerra del Vietnam (la portaerei Ranger, infatti, è stata una delle principali navi impiegate in quel conflitto) che è il substrato, con un sentore di sconfitta bruciante, di Vestito come foglie d’estate alle contraddizioni del melting pot americano che emergono di nuovo in Dopo la partita e, in parte, in La terra dove sono morti i miei padri. E’ un racconto dove prendono forma persino dei contorni noir, a sua volta collegato a Le morti in mare perché entrambi sono imperniati attorno a un omicidio, per quanto in gran parte accidentale. Senza alcun timore, Andre Dubus prosegue come se non avesse paura del dolore, non temesse l’ignoto e con Molly e Rose, due racconti tra i suoi più belli e dolenti in assoluto, mostra, una volta di più, una spiccata sensibilità per i ritratti femminili. Il quadro dell’adolescenza di Molly, alla spasmodica ricerca di quella sensazione “che si prova quando ci si sente amati”, si scontra con l’avviso della madre, Claire: “Quando non sei amata, è peggio che fare parte di una folla. E’ come se non avessi più corpo. Diventi astratta: c’è solo la tua voce dentro di te che ti parla, e ti senti come se non occupassi neppure lo spazio su cui poggi i piedi, come se fossi senza peso. Sei in un punto sulla terra, ma i tuoi piedi sono in aria”. Questo, a tutti gli effetti, è l’avvio al passaggio successivo: Rose è un racconto straziante, dove, con l’intercalare degli aneddoti nel corpo dei marines, si sprofonda nella cupa (e violenta) dissoluzione di una famiglia in cui la protagonista, (la stessa Rose), arriva al punto in cui non può tornare indietro. Una condizione tipica, tra l’altro, dei racconti di Raymond Carver, la cui stima per Andre Dubus è nota. Il lettore è avvisato perché “se diamo tutto ciò che si può dare”, come cantava ancora Bob Dylan in The Death Of Emmett Till, è facile varcare la soglia dell’imprevedibilità e scoprire che, in effetti, anche la realtà “è tutto un mistero”. Con Andre Dubus succede perché è uno scrittore generoso, che rimane nell’ombra e lascia avanzare i suoi personaggi, ma non di meno ne condivide i drammatici destini, come se fosse lì, con loro, cercando di capire dove può spuntare la luce in fondo a Un’ultima inutile serata.

venerdì 15 dicembre 2017

Larry McMurtry

C’è tutto il West in Lonesome Dove: la leggenda e la realtà della terra promessa, le durissime condizioni della vita sulla frontiera, il fascino di orizzonti straordinari, la moltitudine di cowboy, fuorilegge, soldati, giocatori d’azzardo e cacciatori di bisonti, comanche e kiowa, messicani e irlandesi, coloni, puttane, sceriffi e altri disperati che sanno di aver passato gli anni migliori “a combattere dalla parte sbagliata”. Questo vale soprattutto per Call e Gus alias Augustus, due ranger del Texas, veterani delle guerre indiane e degli scontri con i banditi, che hanno avviato un ranch, proprio a Lonesome Dove che è dove tutto ha inizio e fine pur essendo un buco nella terra del border. E’ la partenza e l’arrivo, perché quando si ripresenta Jake Spoon, un vecchio compagno d’armi di Call e Gus, l’idea di trovare un posto nuovo (e di appropriarsene), che in sé è uno dei miti fondanti dell’America, diventa il suggerimento di trasferirsi nei territori in gran parte inesplorati del Montana. Il viaggio principale, lungo tutto l’asse del West e attraverso Texas, Kansas, Wyoming e Nebraska, ha affluenti e diramazioni lungo tutto il suo percorso, proprio come i fiumi che attraversa. Un guado sicuro non c’è mai e la prima perdita avviene per i morsi di un branco di micidiali mocassini acquatici. Ci sono serpenti ovunque (crotali, in genere), ma sono un pericolo relativo per i cavalieri (“Se rallenti per un serpente, tanto vale che cammini”). Altre intemperie sono ben più dolorose: la sete e la fame nella siccità, il freddo e i fulmini nei temporali, le asperità delle piste e tutti gli ostacoli naturali, flora e fauna comprese, di un paesaggio mutevole, bellissimo e crudele, che si stringe attorno alle vicende umane, nonostante gli spazi infiniti. Gus e Call sono i primi a restare incastrati dal bagaglio che si portano dietro. Sono uno l’opposto dell’altro: Gus, che visto il nome ha qualcosa di imperiale, è logorroico, scansafatiche, sicuro di sé, con una vista (e una mira) infallibile, mentre Call è ossessionato dal lavoro, lunatico e ombroso. Si compensano, perché sono entrambi combattenti formidabili con un’idea sommaria della giustizia che coincide con la vendetta perché “se ti metti con un fuorilegge, muori con lui”. Le esplosioni di violenza sono repentine e lancinanti e determinano anche i furiosi cambi di registro di Larry McMurtry. Succede quando incontrano indiani non pacificati, o la feroce dei dei Suggs, o prima ancora quando l’inafferrabile Blue Duck rapisce Lorena. Lei è solo la prima di una mezza dozzina di personaggi femminili che determinano i destini di chi è partito da Lonesome Dove, con un riguardo particolare dovuto Elmira, che pare insopportabile e forse è soltanto un po’ troppo indipendente, e a Clara, che è una meta segreta nel cuore di Gus. La loro presenza contribuisce in modo determinante all’equilibrio che distingue il tono di Larry McMurtry: Lonesome Dove si snoda come un’infinita ballata e a più di trent’anni dalla sua comparsa (risale al 1985) rispecchia alla perfezione l’epigrafe di T. K. Whipple che lo introduce: “Tutta l’America si trova in fondo a una strada selvaggia, e il nostro passato non è morto ma vive ancora in noi. I nostri avi avevano la civiltà dentro; fuori, la natura selvaggia. Noi viviamo nella civiltà che loro hanno creato, ma in cuor nostro quel mondo selvaggio perdura. Viviamo ciò che sognarono e ciò che loro vissero, noi lo sogniamo”. Larry McMurtry, alla fine di tutte le peregrinazioni, degli scontri a fuoco, delle esecuzioni e dei duelli, delle fatiche di amori trovati, perduti o dimenticati, giunge alla stessa conclusione perché dall’argilla del Rio Grande all’erba florida del Montana “la terra è un grande ossario. Però è bella, alla luce del sole”. Epico.

mercoledì 13 dicembre 2017

Charles Simic

La nutrita selezione di poemi che compone Hotel Insonnia rappresenta l’antologia ideale per compiere un primo passo verso la conoscenza di Charles Simic. Ci sono versi che vanno da Macelleria del 1971 (“Qualche volta cammino a notte fonda e mi fermo davanti a una macelleria chiusa. C’è solo una luce nel negozio, la luce del forzato che scava il suo tunnel”) al 1999 con Il topo nella radio (“Dopo gli ultimi notiziari, prendi coraggio, per grattare un paio di volte alla parete del tuo nascondiglio. Ora che le luci sono spente, avverti il freddo, la desolata solitudine, e così porgi il tuo quesito, o forse un saluto sentito? E resta la notte, senza stelle, interminabile e in ogni caso senza traccia di pietà”) nonché un’appendice di tre poesie (Gli scritti dei mistici, Madonne ritoccate con il pizzo e Nel mezzo) risalenti alle sue prime esperienze letterarie. La poesia di Charles Simic è una “spiegazione parziale” fatta soprattutto di immagini: un Sasso, le Angurie, un Mozzicone di matita rossa, una Forchetta, un Muro, dove “un incredibile mondo multiforme che accerchia da ogni lato” viene riletto attraverso liriche brevi, schegge perfezionate con un lavoro di intaglio certosino, che punta a sottolineare e a evidenziare le sporgenze e le asperità e nello stesso tempo ad armonizzarle. La frammentarietà (come scrive in San Tommaso d’Aquino: “Ho lasciato pezzi di me ovunque”) non impedisce a Charles Simic di avere una visione completa di un mondo dove gli oggetti prendono vita, dove “specchi & miracoli” sono, in effetti, gli strumenti per capire, come scriveva ancora in La vita delle immagini, che “tutti noi siamo una sintesi di realtà e irrealtà. E tutti noi indossiamo una maschera. Perfino dentro la nostra mente tentiamo di continuo di nasconderci a noi stessi, solo per essere ripetutamente smascherati”. Nel corso di Hotel Insonnia, che non nasconde la sua precisa collocazione temporale nelle intemperie della seconda metà del Novecento, Charles Simic si concede spesso a volto scoperto. Succede in Scena di strada (“Questo secolo strano, con la sua strage degli innocenti, e il volo sulla luna, ora mi sta aspettando, in una città strana, nella via in cui mi sono perso”) e ancora di più in Leggere la storia dove confessa: “A volte, quando leggo in biblioteca, intravedo i condannati a morte dei secoli passati, e i loro carnefici. Me le vedo davanti quelle pallide facce, come succede a un giudice che legga la sentenza, e provo meraviglia al pensiero che ancora non esisto”. E’ proprio lì che convivono una dimensione intima, introspettiva, persino onirica e una più scrupolosa, attenta e “politica”. Non a caso Leggere la storia è dedicata a Hans Magnus Enzesenberger, che potrebbe spiegare così quel delicato equilibrio: “Ora, non si può certo far parte di tutto ovunque, mi dico, stringo i denti e continuo a leggere”. E’ un destino condiviso con Charles Simic che, nell’appendice di Hotel Insonnia, svela le fonti primarie della sua poesia: “Non esagero quando dico che non posso nemmeno pisciare senza un libro in mano. Leggo per addormentarmi e per svegliarmi. Ho sempre letto al lavoro, in tutti i lavori che ho fatto, nascondendo il libro tra le carte sulla scrivania o nel cassetto mezzo aperto. Anche nella mia bara aperta, un giorno, reggerò un libro. Il libro tibetano dei morti sarebbe molto appropriato, ma preferirei un manuale sul sesso o le poesie di Emily Dickinson”. Un’abitudine che non ha controindicazioni o effetti collaterali, se non la crescita spontanea di una rara sensibilità. 

martedì 5 dicembre 2017

Paul Hoover

Saigon, Illinois è compresso tra due eventi che sono rimasti scolpiti della memoria, in virtù del ruolo via via predominante della televisione. Il clamore dell’offensiva del Tet, con il drammatico assalto all’ambasciata americana, offre il background iniziale, e l’arrivo sulla luna dell’Apollo 11, nel luglio del 1969, non delimitano soltanto l’arco temporale in cui si svolge il romanzo di Paul Hoover, ma sottolineano anche la drastica metamorfosi di un intero immaginario che il protagonista di Saigon, Illinois, Jim Holder spiega in modo molto semplice: “Eravamo abituati a vedere Sid Caesar fare delle smorfie a Imogene Coca o Charley Weaver leggere una lettera del pubblico a casa, e ora non si poteva nemmeno guardare un notiziario senza rimanere pietrificati sul divano”. Jim Holder fa riferimento alla scena di un’esecuzione sommaria nelle strade di Saigon e riporta alla memoria la storica fotografia di Eddie Adams (vinse il premio Pulitzer per quel reportage) che ritraeva il comandante della polizia sudvietnamita, il generale Nguyen Van Ngoc Loan, sparare a sangue freddo a un sospetto vietcong. Dopo la guerra, Nguyen Van Ngoc Loan andò a gestire una pizzeria nei sobborghi di Washington. La bizzarra parabola sembra scritta da Paul Hoover che ha una sensibilità tutta sua nel raccontare la scelta di Jim Holder che, nell’estate del 1968, decide di negarsi alla leva, scegliendo il servizio alternativo in un ospedale. Va notato che il punto di vista disincantato di Jim Holder non riguarda soltanto l’aspetto pacifista, ma anche le posizioni anticonformiste che emersero nel corso di quegli anni. Nella sua prospettiva,“i veri angeli della desolazione non erano motociclisti fuorilegge e beatnik suburbani; erano comuni impiegati di drogheria, meccanici, presidenti di banche e casalinghe che credevano nell’inevitabilità, quindi nella bellezza della prima alba nucleare. Erano le fenici che si alzavano dalle ceneri dell’America delle piccole città e lo sapevano: era questo a conferire loro una tale spaventosa fiducia nei propri odi quotidiani”. L’ospedale dove andrà a lavorare Jim Holder, il Metropolitan di Chicago, ne è la perfetta metafora istituzionale: la sua burocrazia riflette la società della cosiddetta maggioranza silenziosa che è andata in guerra, convinta della sua necessità. Il tran tran è farraginoso: c’è sempre un supervisore che dispone e controlla, ci sono ruoli, mansioni e organigrammi da aspettare o sotterfugi e regole non scritte da assecondare nonostante la costante emergenza in corsia. L’ospedale diventa il centro della vita di Jim Holder, e non solo per le mansioni che è chiamato a svolgere: è anche una sorta di labirinto emotivo dove incontra amore, pietà, perfidia e (va da sé) dolore e morte. L’esperienza è drammatica, anche se Paul Hoover ha un modo del tutto singolare di sottolineare con l’ironia (e il sarcasmo, quando è necessario) i momenti più tragici e gli episodi salienti che incidono sulla trama e sull’andamento della storia. Jim Holder rimane incastrato quando, nel corso di una manifestazione pacifista, si prende la sua razione di manganellate e si ritrova ospite dello stesso ospedale dove deve finire il dovere patriottico. A quel punto le sue opinioni, già tollerate a fatica dall’amministrazione sanitaria, diventano ingombranti, e viene licenziato. L’ufficio di leva, e da lì il Vietnam, lo aspettano. Ormai alla fine, Jim Holder esprime senza censure la sua disillusione, anche nei confronti di un evento tutto sommato innocuo e neutro come l’allunaggio, che a dispetto dell’entusiasmo generale, vede così: “Armstrong probabilmente aveva anche lui delle battute e cose da fare scritte da qualche pubblicitario della NASA, anche se la sua avventura era reale. Un passo avanti per l’umanità, un cazzo”. Paul Hoover rende bene il clima confuso dell’America a cavallo tra il 1968 e il 1969, della frattura verticale tra le generazioni e dell’ambigua conduzione dei conflitti e offre un punto di vista inedito rispetto all’enorme massa bibliografica legata alla guerra del Vietnam. A Jim Holder non resta che l’alternativa on the road che, nello scorcio finale, appare come una conseguenza logica, diretta e spontanea, quasi ovvia, ma solo perché la costruzione di Paul Hoover è molto fedele e puntuale. Nonostante tutto, anche la fuga verso la California è ammantata dallo stesso velo di amarezza che pervade l’intero Saigon, Illinois. Inevitabile perché riporta su un piano emotivo il fallimento di una nazione intera, quella che Allen Ginsberg chiamava “la caduta dell’America”. A quel punto, lo status di Jim Holder passa da parziale obiettore di coscienza (e furono 3250 gli obiettori finirono in carcere) a renitente, insieme ad altri 570.000 giovani americani. Di questi molti fuggirono in Canada o in Europa, 209.517 vennero processati e solo nel 1974 il presidente Gerald Ford promulgò gli atti per una prima clemenza, poi completata dall’amnistia varata da Jimmy Carter nel 1977. Toccante e utile, perché era una storia che ancora doveva essere raccontata.

venerdì 1 dicembre 2017

Robert Palmer

La storia di Deep Blues coincide con quella di Robert Palmer. Figlio di un’era in cui raccontare un disco aveva una sua logica, Robert Palmer applicava alla critica musicale lo stesso spirito di ricerca che lo alimentava nella vita. Ruotava tutto attorno alla musica: suonata (al clarinetto e al sassofono), raccontata, filmata. A sua volta, Deep Blues è stato l’elemento che ha condensato tutte le passioni di Robert Palmer tanto è vero che il libro si è rivelato una porta aperta verso l’omonimo film e la relativa colonna sonora. Al centro di Deep Blues, c’è il Delta, il cuore del blues, il punto di partenza e di arrivo, estremi che sono stati ripercorsi proprio sul campo. Una lunga traversata a ritroso, nel tempo e tra due continenti: la povertà (ancora oggi), la schiavitù, l’Africa. Non è soltanto un viaggio metaforico: tra l’altro avendo accompagnato, con Brian Jones alla scoperta dei Master of Jajouka, Robert Palmer ha conosciuto a fondo le radici africane del blues ed essendo cosciente che si tratta di “una forma letteraria e musicale” proiettata da “una fusione di musica e poesia ottenuta a una temperatura emozionale altissima” si è avvicinato, se non altro, a circoscriverne il DNA culturale. L’ha fatto attraverso il contatto diretto con i protagonisti che, a partire da Muddy Waters, hanno messo a disposizione la loro testimonianza vitale per guidare Robert Palmer in “un enorme campo di sentimenti”. Il suo lavoro, in Deep Blues, si rivela un ibrido altrettanto denso: le storie orali raccolte on the road sono corroborate da un’attentissima dissertazione sulle condizioni sociali e politiche in cui il blues ha preso forma perché la sua originalità “non è questione di sedersi a creare dal nulla le canzoni. Anzi un blues singer con un pezzo fatto interamente o quasi di frasi, versi e strofe rubati rivendicherà ugualmente come sua la canzone, e avrebbe ragione. Da un punto di vista lirico, l’arte di scrivere canzoni blues equivale al combinare frasi, versi e strofe che hanno un’eco emozionale compatibile formando un insieme che rifletta le esperienze, i sentimenti e gli umori del cantante e quelli degli ascoltatori. E più spesso che no il risultato è assolutamente originale”. La vera scoperta di Robert Palmer è quella che non dichiara, almeno non in modo esplicito, ed è stata nell’aver colto la contemporaneità della dimensione collettiva e universale del blues con l’espressione individuale, quest’ultima riassunta così: “Ogni artista blues attinge a un coacervo di queste fonti e all’infuenza di altri artisti blues, e tira fuori qualcosa che è tipicamente suo. L’unico modo per definire il blues con una certa precisione sarebbe considerare il repertorio di ogni artista blues”. Il suo è stato qualcosa di più di un tentativo di descrivere qualcosa di illimitato. Affascinato dalle atmosfere del Delta, trascinato nei misteri lungo i crossroads (e la sua interpretazione sui presunti patti mefistofelici merita di essere assunta a standard per tutte le analisi prossime venture), coinvolto al punto di rendersi conto che “il blues più deep chiede ai suoi ascoltatori di affrontare le proprie gioie, dolori, brame e, soprattutto, la propria mortalità”, Robert Palmer non tornò più a casa, lasciandoci Deep Blues quasi come un testamento spirituale.