giovedì 2 novembre 2017

Wallace Stevens

Harmonium è uno snodo fondamentale della poesia di Wallace Stevens, una raccolta che ripercorre e ricompone in un’unica, voluminosa panoramica gran parte della sua poesia, e della sua idea di poesia che, come scriveva in Trasporto della vita, nasce dalla consapevolezza “che viviamo in un luogo non nostro, e che non siamo noi”. Un modo sfuggente per introdurre l’identificazione totale con la poesia come mondo, non una variazione o una creazione dell’immaginazione, ma proprio come un altro mondo, “come icona”, che sta per immagine, visione, una dimensione che apre un varco dove “l’assurdo della vita ci balena in strani vincoli”. Il dilemma tra le porte spalancate dalla “finzione suprema” e “il senso ordinario delle cose” è il cuore pulsante, che divide e unisce, che intreccia e scioglie ciò che è sufficiente, e ciò che non lo è. L’appello di Wallace Stevens è sempre mascherato dato che, come scriveva in Uomo che porta un oggetto, “la poesia deve resistere all’intelligenza quasi con successo”, ma almeno in un caso diventa esplicito. Succede con Sfumature di un tema Williams: “Non partecipare ad alcuna umanità che ti soffonda della propria luce. Non essere chimera del mattino, mezzo uomo, mezza stella”. Sono le “metafore di un magnifico”, come avverte il titolo di un altro componimento, e diffondono i segnali verso l’ignoto, l’invisibile, l’infinito. Una direzione che Wallace Stevens ribadisce in Dicendo addio, addio, addio (“”In un mondo senza un paradiso a seguire, le soste sarebbero conclusioni, più commosse di addii, più profonde, e ciò sarebbe dire addio, ripetere addio, solo essere lì e solo guardare), in Il sublime americano (“Ci si abitua al tempo, al passaggio e al resto; se il sublime si riduce allo spirito stesso, spirito e spazio, lo spirito vuoto, nello spazio vacuo. Che vino si beve? Che pane si mangia?”) e, a maggior ragione, con Té al palazzo di Hoon dove afferma: “Ero il mondo in cui camminavo, e quel che vedevo udivo o sentivo veniva da me solo; qui mi ritrovavo più vero, più strano”. La stranezza, l’eccentricità e l’originalità sono avvinghiate in cerca di un senso e Harmonium è la più solida dimostrazione di come “una poesia non è necessario che abbia un significato, e come la maggior parte delle cose in natura, spesso non ne ha”. E’ l’essenza in sé dei fenomeni di Wallace Stevens che, come “l’ascoltatore” in L’uomo di neve, “che ascolta nella neve e nulla in sé, vede nulla che non sia lì, e il nulla che è”, osserva sospeso tra prima e dopo, tra apparente e invisibile e tra creazione e costruzione. Il contrasto, paradossale a prima vista, riappare anche in Fosforo legge alla sua stessa luce (“Guarda, realista, senza sapere cosa ti aspetti”) e ancora in Veleggiando dopo pranzo: (“Non è affatto quel che si vede”). Nel celebrare e identificare la poesia di Wallace Stevens, Harmonium è fatto di vette e abissi che lo stesso poeta ha voluto spiegare così: “Non solo i bambini vivono in un mondo d’immaginazione. Tutti lo facciamo. ma dopo avervi vissuto nella misura che vi vive un poeta, il desiderio di tornare al mondo quotidiano diviene tanto acuto che ci strappa dal mondo immaginativo nel modo più deciso. Un altro modo di dire questo è che dopo aver scritto una poesia è bene fare un giro dell’isolato, dopo troppa mezzanotte è piacevole udire il lattaio, ed è qui il senso della poesia, il mondo immaginativo è dopo tutto il solo mondo reale”. Convincente.

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