martedì 19 settembre 2017

Stephen King

Il miglio verde è esemplare nel dispiegare i puntuali meccanismi di Stephen King, che sono pratici, immediati e riconoscibili nel contesto del rapporto con il lettore. Più di tutto è quella conoscenza reciproca, continua, solida e rinnovata nel tempo, a garantire comunque il funzionamento del romanzo, anche dove Stephen King tende a divagare e ad allungare il brodo. Non è roba con cui si possa pensare di vincere il premio Nobel, ma ha un indiscutibile magnetismo in quell’assiduo cercare “il fragile senso di meraviglia” che si nasconde in ogni storia. Il miglio verde comincia con un lungo lavoro di preparazione e la costellazione di personaggi secondari e dell’ambiente dove maturato l’efferato delitto da cui si dipana tutta la trama, un’area in cui “costruiscono da sé i propri mandolini e spesso sputano i denti marci nei solchi dei campi che stanno arando; ventre della campagna dove gli uomini erano proclivi a maneggiare serpenti il sabato mattina e a giacere in abbracci carnali con le proprie figlie la domenica sera”. Con l’America della Depressione sullo sfondo, il braccio E, in cui Il miglio verde rappresenta l’ultima frontiera prima della sedia elettrica, ospita John Coffey, un prigioniero gigantesco condannato alla pena capitale che, si scoprirà, ha un dono magico, e doloroso. Il suo arrivo e quello di un piccolo topo, chiamato Jingles e/o Steamboat Willie, scardinano i già precari equilibri tra le guardie e gli altri prigionieri. Stephen King è nel suo elemento quando si tratta di rendere l’atmosfera e, con Il miglio verde riesce nel difficile compito di far comprendere le sottili, cupe e imprevedibili dinamiche di un braccio della morte. “Avviare la conversazione” è il fulcro della giornata per tutti gli inquilini che camminano lungo Il miglio verde, e sui singoli caratteri, sui bisogni, su ogni piccolo incidente pesa una data di scadenza scritta su un atto giudiziario. Molti dettagli vanno valutati con parametri straordinari e con una sensibilità più acuta del solito perché “quando parte del lavoro è scambiare la vita con la morte”, è difficile trovare una forma di redenzione. La tensione è mantenuta costante da Stephen King e le parti ripetute più volte nel romanzo sono dovute sia al fatto che Il miglio verde in origine era uscito a puntate, sia all’intenzione di ricordare più volte l’essenza della storia. La spada di Damocle sospesa sopra la testa di tutti (e non solo dei condannati) è la pena di morte e la sua esecuzione attraverso uno strumento brutale come la sedia elettrica e, peggio ancora, l’idea che un’ipotesi di giustizia possa essere determinata e definita con queste modalità. Un tema specifico, ed esplosivo, dato che nel braccio E, e non solo, “il tempo si prende tutto, che tu lo voglia o no. Il tempo si prende tutto, il tempo lo porta via, e alla fine c’è solo oscurità”. A Stephen King non basta, come è nella sua natura, e al fiume principale aggiunge una miriade di rami secondari, che a tratti riescono a reggere l’urto della storia e scorrono paralleli, e a volte si disperdono, senza sortire particolari effetti. Le parti non necessarie sono comprese nel prezzo, comunque, e Il miglio verde resta un esempio dello storytelling di Stephen King da centellinare con cura.

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