venerdì 15 settembre 2017

Paul Bowles

Sia Anita che Tom sono nella valle del Niger in cerca di una via d’uscita. Tom, un pittore, vuole trarre ispirazione dalla vita e dai paesaggi subsahariani. Anita si è lasciata alle spalle New York e un divorzio e l’ha raggiunto per ritrovare uno scampolo di equilibrio. Fratello e sorella sono molto simili negli atteggiamenti, entrambi misurati e guardinghi, ma distanti nella condizione psicologica. Tom si destreggia con il suo momento artistico e si è ambientato quel tanto che basta da evitare attacchi di nostalgia. E’ Anita che è Troppo lontano da casa: soffre la sua personale situazione non meno delle condizioni ambientali, igieniche, atmosferiche e (più di tutto) culturali. Tom e Anita sono completati nell’economia della storia dal personale al loro servizio, Sekou e la cuoca Johara, quasi un loro riflesso, indigeno e speculare. Un giorno, per scuotere Anita dalla malinconia, Tom le chiede di farsi accompagnare da Sekou a comprare delle pellicole, dall’altra parte del villaggio in cui vivono, non lontano da Timbuctu. Anita e Sekou hanno un incidente: vengono investiti da una moto con due turisti americani, sprezzanti e spericolati. In apparenza, salvo una ferita per Sekou, non ci sono particolari conseguenze, ma da lì la trama di Troppo lontano da casa comincia ad avvitarsi e a caricarsi di tensione. Anita è costretta a confrontarsi con i propri incubi, e nonostante le rassicurazioni del fratello (“Semplicemente non c’è alcun collegamento fra il contenuto del sogno e il perché tu credi di farlo”), non riesce a pensare che ad andarsene, finché il complesso quadrilatero emotivo, che vede Tom, Sekou e Johara agli altri angoli, non viene scardinato dalla presenza di madame Massot. In effetti, nel gioco a incastri studiato da Paul Bowles, madame Massot, (di origine francese, come si può intuire), proprietaria del negozio di fotografia, è la via di mezzo tra le consuetudini locali e i modelli di vita occidentale. Forse più un racconto lungo che un romanzo breve, Troppo lontano da casa, è un piccolo marchingegno narrativo che funziona alla perfezione nell’angusto spazio che si è definito. Paul Bowles l’ha studiato come un cronometro di precisione, in cui ogni minuscola leva, ogni microscopico ingranaggio scatta e si muove al momento giusto. Il metodo l’ha spiegato in Senza mai fermarsi, la sua colorita autobiografia: “Diciamo che partivo con quattro frammenti di genere disparato, aneddoti, citazioni o semplici frasi prive di alcun contesto, racimolati da fonti distinte e che riguardavano gruppi di personaggi completamente diversi. Il mio compito consisteva nell’inventare un tessuto narrativo che fondesse tutti e quattro gli elementi originali attribuendo a ognuno lo stesso ruolo di sostegno rispetto alla struttura risultante dalla loro somma”. Nelle pagine iniziali, usando persino una forma epistolare, poi delineando i personaggi con semplici accorgimenti, e molto mestiere, e definendo il paesaggio con rapidi e significativi tratti, riesce a far emergere i contrasti, a volte molto aspri, mettendoli in rilievo con un’arguzia speciale, frutto dello spirito di osservazione e della spontanea curiosità di Paul Bowles, più che dell’invenzione narrativa. Un bell’esercizio di stile, efficace ed elegante.

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