domenica 16 luglio 2017

Tom Wolfe

Va cercata nella frase coniata nel 1961 da Shirley Polykoff, copywriter dell’agenzia pubblicitaria Foote, Cone & Belding che si occupava della tintura per capelli Clairol, “Se ho una sola vita, lasciatemela vivere da bionda!”, la scintilla per tutti quei “malinconici esseri convenzionali” refrattari a qualsiasi progetto di ingegneria sociale. Era giunta l’ora di un po’ di colore: la “gente comune” fuggiva da istituzioni e modelli consolidati e si affrancava “dalla famiglia, dal vicinato e dalla comunità, e creava mondi a se stanti. Questo fenomeno non aveva alcun parallelo nella storia, specie considerandone l’ampiezza”. A inneggiare una versione adulterata del Canto di me stesso di Walt Whitman non erano soltanto gli hippie, nonostante fossero la parte più appariscente di quel decennio. Quello “spazio vuoto” venne scoperto e occupato, in modi diversi, da anziani e coppie che cominciavano a giocare un ruolo inedito nel tempo libero, con sensibili variazioni nell’approccio quotidiano, dalla religione ai costumi sessuali. Il lavoro da cronista, interpretato da Tom Wolfe con tutto il suo stile, le sue divagazioni e la sua eccentricità è però puntuale: non racconta come dovrebbe essere ma come è stata la scoperta dell’io visto che “l’antico sogno alchemico era di tramutare i metalli vivi in oro. Il nuovo sogno alchemico è mutare la propria personalità: rifare, rimodellare elevare raffinare il proprio io”. Su quell’onda tellurica si sono mosse, oltre alle ineffabili leve della pubblicità, pronta a cogliere e a solleticare i nuovi consumi, molte altre macchine più lente e goffe nel cercare di catalogare il frutto di quello strambo flusso di coscienza generale: “Il quadro è sempre quello di una creatura sradicata dall’industrialismo, compressa in metropoli assieme a gente che non conosce, impotente contro i massicci mutamenti economici e politici: in breve, una creatura come Charlie Chaplin in Tempi moderni, schiava e abbrutita, frastornata e sconfitta dalla macchina. Questa vittima dei tempi moderni è sempre stata per gli intellettuali, gli artisti e gli architetti una figura estremamente patetica”. Tom Wolfe non fa sconti neanche allo stesso Le Corbusier: i luoghi comuni sono messi alla berlina senza esitazioni, gli stereotipi spogliati fino a svelarli per quello che sono, i modelli precostituiti vengono scansati. La prospettiva di Tom Wolfe, che tiene a distanza di sicurezza le opinioni, riesce a coinvolgere con uno stile che è ipnotico e caustico. Il tono è sempre sarcastico, irriverente, pungente. Mette in ridicolo le statistiche, le tesi e l’invariabile fallibilità delle teorie sociologiche perché è evidente che gli esseri umani americani (e non solo) tendono a prendere traiettorie bizzarre: “Per cominciare, l’homo novus, l’uomo nuovo, l’uomo liberato, il primo uomo comune della storia del mondo con la tanto vagheggiata combinazione di denaro, libertà e tempo libero, questo lavoratore americano, non si presentava nel modo giusto”. I presupposti non vengono mai rispettati, persino nell’ambito della fede perché come ha notato altrimenti Harold Bloom “ridurre il loro approccio a dinamiche socioeconomiche è utile solo fino a un certo punto. Karl Marx è irrilevante per milioni di loro perché, in America, la religione è la poesia dei popoli, e non il loro oppio”. La definizione riduce e concentra con precisione accademica l’ottica di Tom Wolfe: quella dell’io è una scoperta che smentisce tutte le ideologie di massa e trasforma ogni singola esistenza in “un dramma di significato universale” finché ognuno non diventa lo Shakespeare di se stesso, salvo Tom Wolfe, che nei dubbi amletici ci sguazza sornione da una vita.

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