venerdì 7 luglio 2017

Philip Dick

Più che cercare di immaginare le qualità oniriche degli androidi o le intenzioni dei loro cacciatori, sarebbe utile un’ulteriore riflessione sugli scenari creati e, in gran parte, anticipati da Philip Dick. Dal deserto alla spazzatura e alle rovine metropolitane, si tratta di un paesaggio stratificato ed estremo, popolato da una varietà di esseri, da quelli senzienti e raziocinanti a quelli limitati o “speciali”, dalle imitazioni meccaniche degli animali domestici agli androidi in viaggio da e per il pianeta. Dentro questa cornice, il denso tessuto della scrittura di Philip Dick è un’acuta descrizione di una società crollata su se stessa, dove l’incognita dell’organizzazione degli spazi urbani coincide con un contesto autoritario e ossessivo. Non siamo molto lontani. Le leggi che compongono il complicato ordine di San Francisco, un’architettura frastagliata immersa nella “polvere radioattiva”, devono controllare diversi livelli di coscienza, senza che i “modulatori d’umore”, strumenti in grado di regolare la declinazione delle emozioni, possano essere un granché d’aiuto. Gli androidi sono la variabile imprevista che mette in risalto una condizione opprimente. L’origine va cercata melle Predizioni di Philip Dick, dove immaginava che alla fine del ventesimo secolo “le prime colonie-bunker si insedieranno con successo sulla Luna e su Marte. Con la manipolazione genetica verranno creati umani paramutanti in grado di sopravvivere lontano dalla Terra o in ambienti alieni”. Queste creature hanno la particolarità di apparire come gli esseri umani ma “come ogni altra macchina, deve funzionare al momento giusto”. Nella definizione di Philip Dick, così come nella domanda contenuta dal titolo del romanzo si moltiplicano i quesiti: gli androidi hanno un’anima? Cosa sognano? E cosa sognano gli uomini e le donne? E i cacciatori di taglie? Rick Deckard deve “ritirare” alcuni replicanti, ma, al di là dei suoi scopi, perché? Quali allarmi stanno esprimendo? Gli embrioni delle possibili risposte vanno cercate in Mutazioni dove Philip Dick scriveva: “In alcuni dei miei racconti e romanzi, ho parlato di androidi, robot o simulacri; il nome non ha importanza: ciò a cui mi riferisco sono le costruzioni artificiali dall’aspetto umano e, di solito, animate da qualche sinistro proposito. Probabilmente, per me era scontato che se una di queste costruzioni, un robot, per esempio, avesse avuto un scopo positivo, o quantomeno decente, non avrebbe avuto bisogno di camuffarsi. Ormai, però, quest’idea mi pare superata. Queste costruzioni non imitano gli umani: per molti aspetti fondamentali, esse in realtà sono già umane. Non stanno cercando di fregarci, per qualche scopo a noi ignoto: seguono semplicemente i nostri stessi percorsi al fine di superare problemi comuni”. Le condizioni sono mutate per tutti, esseri umani, animali, replicanti, e nella visione di Philip Dick il punto non è soltanto “l’androide organico” e la sua collocazione, è l’insieme di tutte le forme di vita perché “forse, in realtà, stiamo assistendo a una graduale fusione della natura generale delle attività umane con le attività che noi umani abbiamo costruito e di cui ci siamo circondati”. La caccia agli androidi è la persecuzione dei ribelli, attingendo al fattore dell’esperienza, s’inoltrano in una twilight zone dove l’evoluzione della specie non è prevista. Quando gli androidi aprono la porta a Rick Deckard, in una scena che è insieme simbolo e svolta del romanzo, non è per ingenuità, ma perché “l’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto, prevedibilità”. Su quella soglia, che delimita una sconfitta, s’incontrano nell’espressione di “una qualità meccanica, riflessa”, che è biunivoca. Nel mondo ipotizzato da Philip Dick, e in quello specifico momento, il dilemma degli androidi fragili e titubanti, con il cacciatore di taglie che li insegue cercando di rimuovere ogni emozione per compiere una missione dalle motivazioni risibili, rivela in fondo un dramma filosofico, che riguarda il senso stesso dell’umanità, o di quello che ne resta.

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