mercoledì 12 luglio 2017

J. D. Vance

How Can a Poor Man Stand Such Times and Live? chiede Blind Alfred Reed, tra i songwriter capostipiti della cultura hillbilly. La domanda nel titolo della sua canzone più famosa non è per niente retorica. I limiti geografici, la campagna, le montagne, la natura stessa degli Appalachi, sono solo la cornice di quel “mondo interrotto”, come lo definisce J. D. Vance, la cui stessa esistenza è da una parte uno schiaffo all’autorità, e dall'altra una miscela esplosiva di analfabetismo, alcol, droga, violenza domestica (e non) e miserie assortite. J. D. Vance nasce e appartiene a “una banda sgangherata di hillbilly che cercavano la propria strada” e la sua Elegia americana è un tentativo di tenere a bada “i mostri” in una forma strana, un ibrido tra saggio e autobiografia. Non una testimonianza facile, segnata dalle brucianti e ricorrenti ferite psicologiche: cresciuto dai nonni, J. D. Vance viene da una famiglia a “porte girevoli” sul lato paterno, con una madre tossicodipendente e, più di tutto, in un contesto generale dove “il degrado può anche sfuggire ai residenti perché è un processo graduale: assomiglia più a un’erosione che a uno smottamento”. La condizione rurale, già aspra, è attraversata dal processo storico di deindustrializzazione e delle conseguente migrazioni che rivelano come l’etica del “duro lavoro” non sia più sufficiente (se mai lo è stata) a inseguire un’idea di successo e di felicità. La povertà di un’America sconosciuta e nascosta diventa via via più imbarazzante perché come scrive J. D. Vance “non c’era nulla che facesse da collante tra noi e il tessuto sociale americano. Ci sentivamo intrappolati in due guerre apparentemente senza speranza, in cui una quota esagerata di combattenti veniva da nostro quartiere, e in una economia che non era in grado di mantenere la promessa più elementare del sogno americano: uno stipendio sicuro”. Le vicende personali di padri e madri confusi (se non pericolosi) e in genere “sopravvissuti” intersecano la ricostruzione degli aspetti sociali ed economici che distanziano la realtà hillbilly dal mito e dalle mistificazioni del cosiddetto sogno americano perché “le famiglie della classe operaia americana vivono un livello di instabilità che non ha uguali al mondo”. Le forme di comunicazione claudicanti, nel migliore dei casi, spesso grette, ruvide, con un vocabolario ridotto e riferimenti culturali legati solo alle canzoni (Hank Williams, Johnny Cash, Dwight Yoakam, Lynyrd Skynyrd), l’uso persistente della violenza, verbale e non, ricorda a J. D. Vance che “a volte essere un hillbilly voleva dire non capire la differenza tra amore e guerra”. Lo scontro con l’idea dell’appartenenza a una comunità, figlia di “una cultura che promuove sempre più il decadimento sociale anziché contrastarlo”, i fantasmi dell’infanzia che ritornano, hanno portato J. D. Vance a sforzarsi per trovare un’educazione migliore, fino a laurearsi a Yale e a diventare avvocato. Certo che se un hillbilly per trovare un po’ di ordine deve sperare (e arruolarsi, come ha fatto J. D. Vance) nei marines, c’è una bella fetta della torta americana che non è poi così invitante. L’idea del fallimento serpeggia per tutta l’Elegia americana, che in realtà è un tentativo di rammendare un’apologia hillbilly, a proprio uso e consumo, dato che “la realtà si può tenere a bada sono fino a un certo punto”. Si capisce, come dice J. D. Vance, che “è la tregua che ho firmato con me stesso, e per ora funziona”, anche se i limiti rimangono in evidenza. Il tono delle parti confessionali e introspettive cozza con le analisi sociologiche ed economiche. Le forme non si amalgamano, la storia resta al bivio, anche se alcuni aspetti dell’Elegia americana hanno senza dubbio il merito di guardare dentro un’America debole, prostrata, diffidente e (persino) pericolosa per i suoi figli. 

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