lunedì 19 giugno 2017

Suzanne Vega

C’è sempre qualcosa di onirico e di fiabesco nelle canzoni e nella scrittura in generale di Suzanne Vega, anche quando si dedica a situazioni complicate e a immagini taglienti (e non solo in senso metaforico). Riesce a collocare le parole nel senso giusto, le arrotonda, le ammorbidisce, le addomestica, non importa se deve seguire Le regole contorte della notte, con l’ambizione di “sentire ogni segreto degli amanti in battaglia, ogni ombra di rosso e nero”, come scrive Sogno in marcia, o scrutare Marlene che sorride beffarda dal muro. E’ un’osservatrice acuta, con una grazia insolita e originale, che merita una briciola d’attenzione, senza pretendere alcunché dato che, così come lo presenta Suzanne Vega, “questo libro parla di solitudine, di infanzia, della vita di città, dei mondi della fantasia, delle cose romantiche, di violenza, dei misteri legati al sesso, alle apparenze, al fascino, delle difficoltà di comunicare, di fede e di speranza”. Scorrono frammenti di ispirazione infantile, appunti di un songwriting impressionistico, paragrafi di un diario che comprende la scoperta del fado in Portogallo e il ricordo di una session fotografica con David Bailey, “una sfida che deriva dal guardare e dall’essere guardati”. Il collegamento con la riflessione Sulla mascolinità che segue di poche pagine è obbligatorio e automatico: “Per me le persone sexy sono quelle che hanno senso dell’umorismo, che sono intelligenti, che hanno un po’ di senso dello stile; le persone gentili, quelle che esprimono le proprie opinioni, quelle che sono creative, quelle che hanno personalità”. Senza ambire a definizioni intellettuali, e pur restando una delle Neighborhood Girls, lo sforzo è tutto nel tentativo di trovare un senso, con una convinzione cristallina visto, come ammette in Antieroe, che “sbatto la testa contro il mondo finché non lo capisco”. Il rimedio allo scontro e alle ferite è una scrittura che comincia dalle istruzioni illustrate da Suzanne Vega in Come scrivere una poesia: “Devi prendere la lingua, scuoterla bene, sottometterla, reggerla, tenerla ferma. Bloccala quando si agita. Prendila a bastonate. Poi usa lo scalpello, la lima. Modella, scava, falle la punta e rendila affilata, cava, liscia e tonda”. Così facendo, affiora una sensibilità, una delicatezza che le permette di accorgersi che “non è il pugno chiuso, e neanche il colpo, o l’occhio nero. E’ l’inattesa tenerezza che ti fa piangere”, come scrive in Fatto. Aspettando quell’epifania, si può scegliere tra una Canzone notturna e una Canzone in affitto, ma il senso alla fine è sempre quello: “Prendi questa parola falle fare due giri intorno al cuore, uno per tenerlo insieme l’altro perché non vada in pezzi”. Anche nei racconti, dove specifica le sfumature del Cielo azzurro e sangue sulla 10a Avenue o nelle Storie di sogni Suzanne Vega osserva una specie di distanza, una discrezione, come se dovesse chiedere il permesso ogni volta, “come se avessi imparato a vedere e parlare di quello che ho visto anche se non conosco parole per quello che ora so”, scriveva in La chiave del regno. E’ una “piccola cosa blu”, e lo stesso colore della chitarra di Wallace Stevens è qualcosa in più di un indizio.

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