domenica 11 giugno 2017

Michael Hastings

Nominato comandante delle forze armate americane in Afghanistan nel giugno del 2009, il generale Stan McChrystal sa che concetti di vittoria o di sconfitta sono ormai diventati relativi. C’è bisogno di movimento, di costruire dottrine, di scrivere libri, di difendere le teorie più che gli avamposti. “Queste guerre che stiamo combattendo sono così vecchie, così morte”, diceva Don DeLillo e le armi sul terreno di battaglia non bastano più: i fronti si sono moltiplicati e bisogna considerare le idee, la politica, la diplomazia, la comunicazione, più di tutto. Non è chiaro per quale strategia o azzardo, forse perché l’apparato militare si affida sempre più spesso a strateghi civili e ne segue i consigli, ma lo staff del generale McChrystal chiede e ottiene di essere seguito da un inviato di Rolling Stone. Le vie delle pubbliche relazioni sono infinite e misteriose e a Michael Hastings, poco più di vent’anni, vengono accordati confidenza e libero accesso. Michael Hastings non è uno sprovveduto e non è nemmeno un neofita delle zone di guerra, anche se resta molto riluttante ogni volta che si deve imbarcare per quelle destinazioni, eppure con il team di Stan McChrystal e con lo stesso generale, succede qualcosa: si lasciano andare. I motivi sono da cercare forse nella natura di considerarsi (forze) speciali, il sentirsi esclusivi in una missione impossibile, visto che “il mondo era in crisi, i confini dell’impero sotto tiro e grondanti di sangue, ma alla fine saremmo riusciti a risolvere tutto”. Michael Hastings segue Stan McChrystal e il suo entourage a Kabul, Parigi, Berlino, Washington e si ritrova nel ventre della bestia, in una bolla di potere, impenetrabile, asfissiante, deformante che ha il suo apogeo nella farsa e/o tragedia delle elezioni afghane. La guerra resta sullo sfondo, e quando irrompe è straziante, ma Michael Hastings concentra tutta l’attenzione sulle dinamiche dei guerrieri del ventunesimo secolo che “per portare a compimento la missione e proteggere il loro branco, si trattasse di divulgare alla stampa informazioni riservate o costringere un presidente a prendere un provvedimento indesiderato, avrebbero considerato accettabile ogni violenza, ogni atrocità e ogni azione che fosse stata loro chiesta o si fossero sentiti obbligati a compiere”. Michael Hastings questo lo spiega bene in un articolo perfetto, raccontando le distorsioni della realtà, le lunghe ore di volo, la noia e l’alcol, gli intrighi, tutto “un castello di parole”, dal presidente in giù, in “un ambiente in cui cazzo, merda e stronzi figli di puttana erano considerati alla stregua di congiunzioni”. Il suo punto di osservazione era uno dei più privilegiati: era sì, embedded, come tanti altri, ma in qualche modo sfuggiva alle regole e come è noto, l’articolo (perfetto) costò la carriera al generale Stan McChrystal, perché “la merda e la cattiva pubblicità rotolavano sempre verso il basso lungo la scala gerarchica”, ma a distanza di qualche anno il punto è un altro. Quell’articolo, espanso fino ad assumere le dimensioni di un libro, pur mantenendo intatta la forza iniziale, con qualche riempitivo di troppo e qualche ripetizione, racconta la confusione, gli aspetti surreali, le distorsioni, più di tutto, l’uso spregiudicato degli strumenti di comunicazione per influenzare le decisioni a tutti i livelli, tutto per “scuotere il sistema, attirare più attenzione possibile, niente mezze misure”. Il paradosso è che Michael Hastings ha raccontato la verità, pensando di avere fatto “soltanto” il suo lavoro, ma è difficile credere che si considerasse così ingenuo, visto che è stato autentico laddove ogni altro tentativo è votato a mistificare, modellare, trasformare, assecondare altre realtà. Sa di essere “colpevole di avere infranto una regola non scritta molto semplice: mai essere onesti quando si scrive dei potenti, soprattutto di quei personaggi che i media ritengono intoccabili”. Detto altrimenti, nel gergo in uso sulla rotta tra Kabul e Washington: “I miti non dovevano essere abbattuti. Io invece avevo mandato tutto a puttane”, e su questo, sì, non c’è dubbio.

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