venerdì 30 giugno 2017

Herman Melville

Lasciate perdere le baleniere e le prede che inseguono. Quelle navi, secondo Giacca bianca sono soltanto squallide ombre all’orizzonte rispetto alla Neversink alias (in realtà) United States, fregata della marina militare americana. La distinzione, non priva di ironia, è dello stesso Melville che trascorre una crociera di un anno, doppiando Capo Horn e arrivando nella baia di Rio. La descrizione di Herman Melville è fitta, nitida e particolareggiata come un diario di bordo alternativo, frutto di quella che chiama La ricerca della poesia tra mille difficoltà, uno dei tanti titoli dei capitoli di Giacca bianca già esplicativi in sé. La vita, o meglio, “il tumulto che regna” su una nave da guerra, è una macchinosa trattativa quotidiana con lo spazio limitato, con le dure esigenze della navigazione e con gli elementi, altrettanto estremi. Gente di mare particolarmente soggetta a subire le condizioni del tempo, sa come affrontare la burrasca e la bonaccia, ma è sempre in difficoltà nella convivenza obbligata tra le pareti catramate del vascello perché “qui i figli delle avversità s’incontrano con i figli delle calamità, e qui i figli delle calamità s’incontrano con la prole del peccato”. Con un equipaggio di cinquecento uomini, Lo stato sociale su una nave da guerra è soggetto a numerose variabili, spesso contraddittorie. Gli ordini sono perentori, l’organizzazione è disciplinata dagli articoli di guerra, giorno e notte sono scanditi da compiti, postazioni e turni rigorosi, ogni errore viene corretto a colpi di frusta (anche Giacca biacca ovvero Melville rischierà di essere punito per una piccola amnesia). Non c’è via di scampo: la diserzione, o soltanto un tentativo di lasciare la nave, portano a conseguenze drammatiche, come succede al nocchiere. Mentre la Neversink è ancorata in porto, tenta di raggiungere la riva in cerca di avventure notturne, ma dopo pochi metri in mare viene colpito alla gamba dal colpo di fucile sparato da una sentinella. Nel tentativo di salvarlo, il dottor Cuticle tenterà un’amputazione in una delle scene più agghiaccianti di Giacca bianca. L’abnegazione della “gente di bordo” è raccontata in modo epico da Melville che mette in risalto anche tutte le altre variabili, spesso invisibili e impercettibili, con cui si sopravvive sulla Neversink: la benevolenza (o meno) degli ufficiali, i rituali e le superstizioni, il contrabbando, l’alcol e quegli sprazzi di generosità interpretati da Jack Chase, un nobile lupo di mare, perché “in realtà una nave da guerra è una città galleggiante”. Si nota nella somma dei dettagli, delle consegne, degli ordini che compongono il linguaggio, un gergo che Giacca bianca riporta minuziosamente, ricordando “gli uomini alle aspe, quelli pronti a incocciare le gaschette dal viradore alla gomena, quelli che alavano, quelli al viradore, i lavativi e tutti gli altri, si arrampicarono su per le scalette fino ai bracci e alle drizze, mentre, come scimmie sulle palme, quelli che mollavano le vele uscivano su quegli enormi rami, i nostri pennoni; e giù si dispiegavano le vele come nuvole bianche dall’etere, gabbie, velaccini, velacci e stragli; e via, forza con quelle drizze, fino a che ogni vela fu ben tesa”. Per quanto inserito a pieno titolo nella ciurma, Melville rimane molto polemico nei confronti della marina e, per estensione, del governo. Le ragioni non mancano: le condizioni di vita proibitive, la violenza delle punizioni corporali (la fustigazione, che condanna in diversi capitoli), i ritmi massacranti, la scarsezza del cibo e del sonno, più di tutto la distanza tra gli ufficiali (compreso un ammiraglio alcolizzato) e l’equipaggio, lo angustiano. Herman Melville non riesce a conciliare “l’aristocrazia su una nave da guerra” e “la democrazia di tutte le cose”, implicita nella primordiale idea della rivoluzione americana. Il naufragio (metaforico) è nell’aria e Melville lo avverte quando dice che “allora finché esisterà una nave da guerra essa rimarrà sempre il paradigma di quanto c’è di tirannico e di repellente nella natura umana”. Fine. La sfida sarà un’altra: al largo, dietro le creste delle onde, s’intravede Moby Dick.

martedì 27 giugno 2017

Greil Marcus

Secondo Greil Marcus, i Sex Pistols, capaci di firmare tre contratti diversi per fare un solo disco in tutta la loro storia sono stati “un fuoco di paglia, una meraviglia, una fabbrica per far soldi e per farsi qualche risata, un tocco del vecchio épater la bougeoisie”. L’esistenza di un meteora così abbagliante è stata permessa dal fatto che, come scriveva Guy Debord, “la realtà sorge all’interno dello spettacolo, e lo spettacolo è reale”, e il gioco prevedeva ruoli e interpreti imprevisti, con un precedente illustre in America. L’associazione tra l’irruzione di Elvis e quella dei Sex Pistols ha una sua logica stringente che Greil Marcus semplifica con precisione quando dice che “comunque, Elvis Presley e i Sex Pistols hanno cambiato l’impostazione della vita quotidiana, ne hanno alzato la posta. Se quello che hanno fatto non ha provocato nessuna vera e propria rivoluzione, ha comunque reso la vita più interessante in tutto il mondo, e la vita continua ancora a essere più interessante di quanto sarebbe stata se non fossero mai apparsi”. Su questo non c’è ombra di dubbio. I Sex Pistols sono stati ancora (più) devianti nella natura europea e nel focalizzare l’elemento di rottura oltre la musica e le canzoni visto che “il rock’n’roll, avrebbe detto Johnny Rotten, era solo la prima di molte cose che i Sex Pistols intendevano distruggere. Eppure poiché non avevano altre armi, poiché loro malgrado erano dei fans, i Sex Pistols suonavano rock’n’roll riducendolo a velocità, rumore, furia e gioia maniacale come nessun altro aveva fatto prima”. Erano marziani almeno quanto Elvis, prima di loro, ma avevano aggiunto una patina di colore ambiguo e brillante nel negare il passato e nel declamare il “no future”: “Quello era il punk: una carrellata di vecchie idee rese sensazionali da nuovi sentimenti che istantaneamente si trasformarono in nuovi cliché, ma imposti con una tale forza che il tutto sballò le sue equazioni giorno per giorno. Per ogni falsa novità ce n’era una vera: per ogni posa di terza categoria, c’era una posa di quarta categoria che si trasformava in un vero motivo”. Non c’è una tesi concreta da seguire o condividere nelle Tracce di rossetto, piuttosto una miriade di connessioni, coincidenze, sovrapposizioni simboliche e metaforiche che Greil Marcus prova a collegare, inserendo i Sex Pistols in un contesto di rivolte, teorie e improvvisazioni sul tema, che vanno dagli anarchici ai dadadisti, dai situazionisti al maggio francese del 1968 all’estrema radicalizzazione seguita a Never Mind The Bollocks. Il tentativo, ambizioso e non privo di un solido background, si rivela riuscito soltanto in parte, ovvero nella prima metà delle Tracce di rossetto, dove si intravede nel rock’n’roll “il più puro esempio di laissez-faire che il capitalismo avesse mai conosciuto”. Da lì, e già non è molto chiaro, rendere intelligibili i “percorsi segreti” resta un bel miraggio, come se Greil Marcus invece di sciogliere i nodi si fosse arreso, limitandosi a indicare le pure numerose analogie e finendo per accorgersi che, nei corsi e ricorsi della storia, “il disturbo dell’ordine pubblico ha poca importanza”. L’ammissione non è relativa ed è ampliata e circostanziata, con uno spicchio d’ironia, nella citazione tratta da Routine Pleasures: “Siamo tutti come attori non protagonisti di un film di Preston Sturges pronti a testimoniare davanti alla giuria di un piccolo paese in termini la cui rilevanza sfuggirebbe a chiunque tranne che a noi”. Resta il fatto che nel momento in cui vedi roteare un’asta del microfono, senti sferragliare la chitarra in Holiday In The Sun o il salmodiare folle di Anarchy In The UK, l’istinto suggerisce, come dice Pete Townshend, che quello è “il modo in cui dovresti passare tutta la tua vita”. E non è molto diverso nell’avvicinarsi attraverso i dischi perché “la potenza in questi pezzetti di plastica, la tensione tra il desiderio che li alimenta e il fatalismo che è pronto a bloccare ogni battito, la risata e la sorpresa nelle voci, la fiducia nella musica, tutte queste cose ora sono scioccanti, perché in due o tre minuti ciascuno è un assoluto. Non puoi attribuire a un disco più valore che a un altro, non mentre l’ascolti; ciascuno è la fine del mondo, la creazione del mondo, completo in se stesso”. E’ forse la definizione più completa di Tracce di rossetto, poi il lavoro di ricerca è enorme, congruo e considerevole, ma più vengono accumulate nozioni e salti indietro nel tempo e meno evidente è il senso compiuto, finché “tutto ciò che resta sono desideri senza linguaggio”. Greil Marcus, fiutando la trappola e avendo assorbito per osmosi le abitudini truffaldine dei Sex Pistols, aveva messo le mani avanti fin dall’inizio di Tracce di rossetto, quando ammette che “non si possono risolvere gli autentici misteri, si possono però trasformare in misteri più interessanti”. Questo, sì, gli è riuscito alla perfezione.

domenica 25 giugno 2017

Lydia Davis

Creature nel giardino, che incolla due raccolte di Lydia Davis, Samuel Johnson è indignato e Varietà di disagio, rappresenta un excursus più che sufficiente a cogliere l’essenza di uno stile unico e spiazzante. I suoi frammenti sono calembour, sciarade, rebus, giochi di parole minuscoli, persino sottili alchimie nell’uso del corsivo in Modi di ricordare (“Ricordati che sei polvere. Cercherò di tenerlo a mente”), piccoli enigmi come Perdere la memoria (“Mi chiedi di Edith Wharton. Sì, il nome mi suona familiare”), l’apologia di una scoreggia in Fare aria o una Storia orale (con singhiozzo), e non si capisce se Lydia Davis sia geniale o (soltanto) irriverente. Le sfumature fantastiche in La tribù bianca o l’horror in La paziente sottolineano alcune peculiarità proprie delle Creature nel giardino e insieme un’idea non molto edificante della società in cui viviamo a partire dalla Televisione, dove “tutto ha inizio con il puntino azzurro al centro dello schermo scuro, è allora che hai la percezione che le immagini ti arriveranno da molto lontano”. All’estremo opposto, perché Lydia Davis non si risparmia, le strutture hanno costruzioni più elaborate, fino all’eccesso di Verso sud, legge Worstward Ho un racconto che si sdoppia in un altro nelle note a piè di pagina. Tra l’altro svela, e non solo dal titolo, un punto di riferimento inevitabile nell’articolare un linguaggio ridotto al minimo, ovvero Samuel Beckett, che in Quello che è strano, via, definiva questa “grande necessità di parole senza osare finché alla fine lento riflusso dieci secondi, troppo veloce, trenta adesso, grande necessità senza osare finché alla fine lento riflusso trenta secondi sulla terra attraverso mille grigi che sprofondano nell’ombra”. E’ l’incomunicabilità trasposta nelle stesse frasi, ripetute, insistenti, come rappresentazione plastica e assurda di un dialogo impossibile. Lo spaccato è quello di coppie o famiglie scheggiate, fragili e divise, dove le parole sono un ostacolo, spesso insormontabile perché come scrive in La trasformazione “ci sono dei limiti alle cose che si possono accettare, persino se sono cose impossibili”. Lydia Davis riporta a terra le parole, dietro la maschera di “una disperazione leggera” che in realtà, è “autocoscienza”, come l’ha definita Jonathan Franzen, che in effetti risulta l’elemento determinante in Priorità o Propositi per l’anno nuovo, dove concede che “il mio proposito per l’anno nuovo è imparare a vedermi come un niente”. Non è un lavoro facile, in gran parte è un concentrato di Solitudine, titolo di quattro righe che si specchiano e si sovrappongono, un esempio lampante della scrittura di Lydia Davis (“Non mi chiama nessuno. Non posso controllare la segreteria telefonica perché sono rimasta a casa per tutto questo tempo. Se esco, potrebbe telefonare qualcuno mentre sono fuori. Allora quando tornerò potrò controllare la segreteria telefonica”) che poi sembra ripetersi come eco naturale di Compagne (“Ce ne stiamo sedute qui, io e la mia digestione. Io leggo un libro e lei smaltisce il pranzo che ho mangiato poco fa”). Senza alcun dubbio Lydia Davis e le sue scoppiettanti proposizioni sono Speciali, e nella sua ammissione, in qualche modo conclusiva, nel racconto con lo stesso titolo, c’è ancora una domanda spalancata: “Noi sappiamo essere molto speciali. Eppure continuiamo a cercare di capire in che senso: non in questo non in quello, in quale allora?”, ed è tutto. Prendere o lasciare.

mercoledì 21 giugno 2017

Henry Miller

In fuga dall’Europa, dove ormai la seconda guerra mondiale sta cancellando ogni illusione di civiltà, Henry Miller si siede al volante e macina diecimila miglia, convincendosi che “l’unico modo di vedere l’America è in macchina: così dicono tutti. Non è vero, naturalmente, ma suona bene. Non avevo mai posseduto una macchina, non sapevo nemmeno guidare”. L’idea del viaggio è risalire alla fonte, alle radici, solo che tra la nostalgia della cultura europea e l’insoddisfazione personale lo trasformano in un’odissea caustica. Il paragone tra Parigi e Mobile è impietoso, gli unici quartieri che lo affascinano sono quelli di Charleston e New Orleans dove l’influenza francese è palpabile, per il resto la sua considerazione per l’America è radicale, sprezzante, tranchant. In una lettera scrive: “Che paese meraviglioso l’America. Ti fotte a ogni passo”, e poi ci vuole un bel coraggio a definire Walt Disney “un maestro dell’incubo”, ma non a caso l’America autentica è soltanto quella in cui la presenza umana è insignificante, dove “c’è un enorme rettangolo che abbraccia porzioni di quattro stati, Utah, Colorado, New Mexico e Arizona, e è tutto incanto, stregoneria, illusionismo, fantasmagoria. Forse il segreto del continente americano è racchiuso in questo territorio selvaggio, impervio e parzialmente inesplorato”. E’ solo deserto, lì, e rende plausibile l’ipotesi che gli strali di Henry Miller fossero indirizzati verso l’umanità in generale più all’America, nello specifico. Dirà la stessa Anaïs Nin: “L’avventura di Henry è distruttiva, è una catastrofe, un sacrificio. Perché in questo viaggio non c’è niente di costruttivo, non fa altro che sputare in faccia all’America, come un predicatore che pronuncia un sermone infinito”. Come tutte le omelie, anche L’incubo ad aria condizionata contiene aspetti caricaturali e profetici in uguale misura, entrambi non trascurabili, soprattutto quando Henry Miller declama: “Non si fa un mondo nuovo cercando solo di dimenticare il vecchio. Un mondo nuovo lo si fa con uno spirito nuovo, con nuovi valori. Può darsi che il nostro mondo sia cominciato così, ma oggi è una caricatura. Il nostro mondo è un mondo di cose. E’ fatto di comodità e di lusso, oppure del desiderio di entrambi. Ciò che temiamo di più, di fronte all’incombente débâcle, è che saremo costretti a rinunciare ai nostri aggeggi, alle nostre carabattole, a tutte le piccole comodità che ci hanno dato tanta scomodità. Nella nostra condotta non c’è niente di coraggioso, di cavalleresco, d’eroico o magnanimo. Non siamo anime pacifiche; siamo timidi, affettati, schizzinosi e gemebondi”. Non di meno, il giudizio e la sentenza per e con gli americani vengono estesi verso l’intero genere umano: “Conosciamo soltanto una piccola frazione della storia dell’uomo su questa terra. E’ una lunga, monotona, dolorosa successione di catastrofici mutamenti che implicano a volte la scomparsa di interi continenti. Narriamo la storia come se l’uomo fosse una vittima innocente, un inerme partecipante alle casuali e imprevedibili rivoluzioni della natura. Forse lo era in passato. Ma ora non più. Oggi, qualunque cosa accada a questa terra, è opera dell’uomo. L’uomo ha dimostrato d’essere padrone d’ogni cosa: tranne che della propria natura. Se ieri era figlio della natura, oggi è una creatura responsabile. Ha raggiunto un punto di consapevolezza che non gli consente più di mentire a se stesso. La distruzione è ora deliberata, volontaria, autoprovocata. Siamo a un bivio: possiamo andare avanti o ricadere. Abbiamo ancora la possibilità di scegliere. Domani forse no”. Allora non poteva saperlo, Henry Miller, ma il dubbio lo risolveva già nella curiosa appendice. La fondazione Guggenheim gli aveva negato un contributo per L’incubo ad aria condizionata e per chiarire la “tradizione” delle borse, Henry Miller aveva pubblicato l’elenco del 1941 che, tra le altre amenità, ne comprendeva una a favore di tale dottor Aristid V. Grosse, farmacista, Bronxville, New York, per la “continuazione di studi sui prodotti del bombardamento neutronico dell’uranio, protattinio e torio”. Quel futuro l’avrebbe visto, dall’altra parte dell’oceano, guardandolo da Big Sur, senza peraltro cambiare opinione. Molti anni dopo, nel 1966, avrebbe detto, ancora: “L’America è meglio tenerla così, sempre sullo sfondo, una specie di cartolina postale a cui guardare nei momenti di debolezza. Così, tu t’immagini che sia sempre là ad attenderti, immutata, intatta, un grande spazio aperto patriottico con vacche, pecore e uomini dal cuore buono, pronti a fottersi tutto quello che vedono, uomo donna o bestia. Non esiste l’America. E’ un nome che si dà a un’idea astratta”. Coerente, fino alla fine.

lunedì 19 giugno 2017

Suzanne Vega

C’è sempre qualcosa di onirico e di fiabesco nelle canzoni e nella scrittura in generale di Suzanne Vega, anche quando si dedica a situazioni complicate e a immagini taglienti (e non solo in senso metaforico). Riesce a collocare le parole nel senso giusto, le arrotonda, le ammorbidisce, le addomestica, non importa se deve seguire Le regole contorte della notte, con l’ambizione di “sentire ogni segreto degli amanti in battaglia, ogni ombra di rosso e nero”, come scrive Sogno in marcia, o scrutare Marlene che sorride beffarda dal muro. E’ un’osservatrice acuta, con una grazia insolita e originale, che merita una briciola d’attenzione, senza pretendere alcunché dato che, così come lo presenta Suzanne Vega, “questo libro parla di solitudine, di infanzia, della vita di città, dei mondi della fantasia, delle cose romantiche, di violenza, dei misteri legati al sesso, alle apparenze, al fascino, delle difficoltà di comunicare, di fede e di speranza”. Scorrono frammenti di ispirazione infantile, appunti di un songwriting impressionistico, paragrafi di un diario che comprende la scoperta del fado in Portogallo e il ricordo di una session fotografica con David Bailey, “una sfida che deriva dal guardare e dall’essere guardati”. Il collegamento con la riflessione Sulla mascolinità che segue di poche pagine è obbligatorio e automatico: “Per me le persone sexy sono quelle che hanno senso dell’umorismo, che sono intelligenti, che hanno un po’ di senso dello stile; le persone gentili, quelle che esprimono le proprie opinioni, quelle che sono creative, quelle che hanno personalità”. Senza ambire a definizioni intellettuali, e pur restando una delle Neighborhood Girls, lo sforzo è tutto nel tentativo di trovare un senso, con una convinzione cristallina visto, come ammette in Antieroe, che “sbatto la testa contro il mondo finché non lo capisco”. Il rimedio allo scontro e alle ferite è una scrittura che comincia dalle istruzioni illustrate da Suzanne Vega in Come scrivere una poesia: “Devi prendere la lingua, scuoterla bene, sottometterla, reggerla, tenerla ferma. Bloccala quando si agita. Prendila a bastonate. Poi usa lo scalpello, la lima. Modella, scava, falle la punta e rendila affilata, cava, liscia e tonda”. Così facendo, affiora una sensibilità, una delicatezza che le permette di accorgersi che “non è il pugno chiuso, e neanche il colpo, o l’occhio nero. E’ l’inattesa tenerezza che ti fa piangere”, come scrive in Fatto. Aspettando quell’epifania, si può scegliere tra una Canzone notturna e una Canzone in affitto, ma il senso alla fine è sempre quello: “Prendi questa parola falle fare due giri intorno al cuore, uno per tenerlo insieme l’altro perché non vada in pezzi”. Anche nei racconti, dove specifica le sfumature del Cielo azzurro e sangue sulla 10a Avenue o nelle Storie di sogni Suzanne Vega osserva una specie di distanza, una discrezione, come se dovesse chiedere il permesso ogni volta, “come se avessi imparato a vedere e parlare di quello che ho visto anche se non conosco parole per quello che ora so”, scriveva in La chiave del regno. E’ una “piccola cosa blu”, e lo stesso colore della chitarra di Wallace Stevens è qualcosa in più di un indizio.

martedì 13 giugno 2017

Philip Dick

Philip K. Dick ha svolto un ruolo fondamentale nell’immaginario della seconda metà del ventesimo secolo e la sua influenza non si è ancora esaurita, anzi. Le sue visioni hanno anticipato soluzioni scientifiche e catastrofi tecnologiche, con punte di vera e propria profezia (come scriveva nel 1981 in Predizioni: “1985. Intorno a questa data, o prima, si verificherà un incidente nucleare di proporzioni gigantesche, in Unione Sovietica o negli Stati Uniti, in seguito al quale verranno chiuse tutte le centrali nucleari”) e interpretando con ammirevole lungimiranza argomenti di straordinaria complessità (e oggi d’attualità) quali la manipolazione genetica o la clonazione. Mutazioni è una raccolta ricca ed eterogenea, eppure molto valida nel rappresentare le forme del pensiero di Philip Dick, che si considerava narratore almeno quanto filosofo. La varietà delle forme contenute, dall’intervista alla recensione (tra i più citati Theodore Sturgeon, ammiratissimo, Ray Bradbury, Jules Verne, Harlan Ellison, ma anche songwriter come Jim Croce e Don McLean), dalle trame per romanzi in embrione alle bozze di alcuni capitoli, rappresentano con efficacia il percorso umano, intellettuale e letterario di Philip K. Dick che non è stato soltanto un (grandissimo) scrittore di fantascienza, ma uno sperimentatore a tutto campo. La convinzione partiva dall’inizio, dall’idea in sé: “Quel che mi importa è scrivere, l’atto di produzione del romanzo, perché mentre lo sto compiendo, in quel momento particolare, vivo davvero nel mondo di cui sto scrivendo”. Ha avuto davvero la forza di immaginarsi altri mondi, e di tradurli in una scrittura densa, particolareggiata, florida e motivata. Non ha avuto la paura di confrontarsi con i problemi etici, filosofici o semplicemente razionali che lo sviluppo tecnologico impone ed anzi, come ampie parti di Mutazioni confermano, si è prodigato nello studio, nell’analisi e nella ricerca per consolidare le fondamenta dei suoi viaggi psichedelici. Convinto che “la fantascienza presenta in forma narrativa una visione eccentrica della normalità o una visione normale di un mondo che non è il nostro”, si è distinto come outsider e dissidente perché, come recita una delle note biografiche riportate da Mutazioni: “Nei suoi romanzi cerca di dar voce soprattutto alla lotta contro tutte le forme di oppressione del libero spirito umano: qualsiasi tirannia, dall’assuefazione alle droghe allo stato di polizia, alle tecnologie per la manipolazione delle coscienze. Il cittadino comune, privo di potere economico e politico, è l’eroe di tutti i suoi romanzi, oltre a essere il suo eroe personale, e la sua speranza per il futuro”. Anche nascosto tra androidi e viaggi nel tempo e allucinazioni assortite, è sempre quello il tema ricorrente nei romanzi di Philip Dick nella convinzione che “l’uomo continuerà a fare piani e a tramare anche tra le rovine: il suono della sua voce si farà sempre risentire”. Mutazioni, pur nella limitatezza dell’approfondimento offre una visione completa delle diverse aspirazioni di Philip K. Dick, della della sua lucida follia, della sua voce incomparabile, non è nemmeno tutto. L’immagine di Philip K. Dick che scrive in continuazione, senza sosta, per sbarcare il lunario (“Ho scritto e venduto ventitré romanzi, e sono tutti orribili, tranne uno. Ma non so di preciso quale sia”) è forse il suo ritratto più romantico, e sincero, che lui traduceva così: “Ecco come sono: paralizzato dall’immaginazione”. Una definizione perfetta, a cui si può aggiungere solo quello che scriveva Paul Williams nel 1969: “Vi dirò... Philip K. Dick avrà, sulla coscienza di questo secolo, più influenza di William Faulkner, Norman Mailer o Kurt Vonnegut”. Se non altro, è in bella compagnia.

domenica 11 giugno 2017

Michael Hastings

Nominato comandante delle forze armate americane in Afghanistan nel giugno del 2009, il generale Stan McChrystal sa che concetti di vittoria o di sconfitta sono ormai diventati relativi. C’è bisogno di movimento, di costruire dottrine, di scrivere libri, di difendere le teorie più che gli avamposti. “Queste guerre che stiamo combattendo sono così vecchie, così morte”, diceva Don DeLillo e le armi sul terreno di battaglia non bastano più: i fronti si sono moltiplicati e bisogna considerare le idee, la politica, la diplomazia, la comunicazione, più di tutto. Non è chiaro per quale strategia o azzardo, forse perché l’apparato militare si affida sempre più spesso a strateghi civili e ne segue i consigli, ma lo staff del generale McChrystal chiede e ottiene di essere seguito da un inviato di Rolling Stone. Le vie delle pubbliche relazioni sono infinite e misteriose e a Michael Hastings, poco più di vent’anni, vengono accordati confidenza e libero accesso. Michael Hastings non è uno sprovveduto e non è nemmeno un neofita delle zone di guerra, anche se resta molto riluttante ogni volta che si deve imbarcare per quelle destinazioni, eppure con il team di Stan McChrystal e con lo stesso generale, succede qualcosa: si lasciano andare. I motivi sono da cercare forse nella natura di considerarsi (forze) speciali, il sentirsi esclusivi in una missione impossibile, visto che “il mondo era in crisi, i confini dell’impero sotto tiro e grondanti di sangue, ma alla fine saremmo riusciti a risolvere tutto”. Michael Hastings segue Stan McChrystal e il suo entourage a Kabul, Parigi, Berlino, Washington e si ritrova nel ventre della bestia, in una bolla di potere, impenetrabile, asfissiante, deformante che ha il suo apogeo nella farsa e/o tragedia delle elezioni afghane. La guerra resta sullo sfondo, e quando irrompe è straziante, ma Michael Hastings concentra tutta l’attenzione sulle dinamiche dei guerrieri del ventunesimo secolo che “per portare a compimento la missione e proteggere il loro branco, si trattasse di divulgare alla stampa informazioni riservate o costringere un presidente a prendere un provvedimento indesiderato, avrebbero considerato accettabile ogni violenza, ogni atrocità e ogni azione che fosse stata loro chiesta o si fossero sentiti obbligati a compiere”. Michael Hastings questo lo spiega bene in un articolo perfetto, raccontando le distorsioni della realtà, le lunghe ore di volo, la noia e l’alcol, gli intrighi, tutto “un castello di parole”, dal presidente in giù, in “un ambiente in cui cazzo, merda e stronzi figli di puttana erano considerati alla stregua di congiunzioni”. Il suo punto di osservazione era uno dei più privilegiati: era sì, embedded, come tanti altri, ma in qualche modo sfuggiva alle regole e come è noto, l’articolo (perfetto) costò la carriera al generale Stan McChrystal, perché “la merda e la cattiva pubblicità rotolavano sempre verso il basso lungo la scala gerarchica”, ma a distanza di qualche anno il punto è un altro. Quell’articolo, espanso fino ad assumere le dimensioni di un libro, pur mantenendo intatta la forza iniziale, con qualche riempitivo di troppo e qualche ripetizione, racconta la confusione, gli aspetti surreali, le distorsioni, più di tutto, l’uso spregiudicato degli strumenti di comunicazione per influenzare le decisioni a tutti i livelli, tutto per “scuotere il sistema, attirare più attenzione possibile, niente mezze misure”. Il paradosso è che Michael Hastings ha raccontato la verità, pensando di avere fatto “soltanto” il suo lavoro, ma è difficile credere che si considerasse così ingenuo, visto che è stato autentico laddove ogni altro tentativo è votato a mistificare, modellare, trasformare, assecondare altre realtà. Sa di essere “colpevole di avere infranto una regola non scritta molto semplice: mai essere onesti quando si scrive dei potenti, soprattutto di quei personaggi che i media ritengono intoccabili”. Detto altrimenti, nel gergo in uso sulla rotta tra Kabul e Washington: “I miti non dovevano essere abbattuti. Io invece avevo mandato tutto a puttane”, e su questo, sì, non c’è dubbio.

mercoledì 7 giugno 2017

Robert Frank

Gli americani interpretati da Robert Frank sono inquadrati nel contesto di un paesaggio mutevole, che ha come sfondo principale la, “strada folle che spinge gli uomini ad andare avanti, la folle strada, solitaria, che ti fa uscire di testa e ti rivela squarci di spazio verso l’orizzonte”, e non potrebbe essere diversamente vista l’associazione, spontanea e naturale, con Jack Kerouac, la cui presenza vale molto più della breve introduzione. C’è lo stesso, appassionato lirismo nelle fotografie di Robert Frank, c’è lo stesso afflato ideale, verso “quella folle sensazione in America” più che verso una dimensione reale: Gli americani è un capitolo visivo di un'epopea intraprendente ed entusiasta, non è un classico libro di fotografia. Quelle di Robert Frank non sono riprese canoniche, ordinate e/o corrette, dal punto di vista geometrico, o dell’esposizione, o del taglio. Non hanno didascalie, indicazioni o istruzioni per l’uso. Sono il frutto di una visione non allineata, non omologata, non consolatoria, ed è per questo Gli americani venne pubblicato prima in Francia, con il titolo Les américains, perché ritenuto troppo scomodo. E' una collezione di ritratti immediati, dove il bianco e il nero garantiscono tutta la prospettiva minima e indispensabile. Le immagini pagano un debito di riconoscenza nei confronti di Walker Evans e hanno tutta una loro consistenza perché sono più “le parole del poeta”, come diceva Robert Frank. Un richiamo sensibile da cui Jack Kerouac non poteva esimersi di rispondere: “Chi non ama queste immagini, non ama la poesia, capito? Se non ami la poesia, va’ a casa e guarda la TV con i cowboy col cappello da cowboy e i poveri cavalli gentili che li sopportano. Robert Frank, svizzero, discreto, carino, con quella sua piccola macchina fotografica che tira su e fa scattare con una mano, ha estratto una poesia triste dal cuore dell’America e l’ha fissata sulla pellicola, così è entrato a fare parte della compagnia dei grandi poeti tragici del mondo. A Robert Frank adesso mando questo messaggio: tu sai vedere. E dico: quella ragazzina ascensorista tutta sola che guarda in su e sospira in un ascensore pieno di demoni confusi, come si chiama? Dove abita?”, e sono quelle le domande che valgono per tutti Gli americani. I ballerini e il cowboy a New York, i bianchi al ristorante e i neri al funerale, le croci e le stars and stripes (ovunque), i cartelli e le insegne, le attese, le partenze e gli arrivi, le folle e le solitudini, come se a Edward Hopper avessero dato una macchina fotografica e tolto i colori. Ha ragione Robert Frank quando diceche “il genio dell’artista consiste nel guardare il mondo che condivide con noi”, solo che la sorpresa nel rileggere Gli americani è il fascino di quello che rimane in sospeso, nascosto, misterioso, benzina per l’immaginazione, quell’atmosfera del jukebox all’idrogeno e dell’incubo ad aria condizionata che l’introduzione di Jack Kerouac suggeriva, lasciando spazio a intere praterie per l’interpretazione: “Non avevo mai pensato che fosse possibile fissare tutto questo sulla pellicola e ancora meno che le parole potessero descriverne la meravigliosa complessità”. Con Gli americani, sulla strada, succedono entrambe le cose.

venerdì 2 giugno 2017

Brian Panowich

Per la famiglia Burroughs l’omicidio è qualcosa che sta tra l’incidente e l’ineluttabile necessità di rimuovere un ostacolo, fosse anche il ramo di un albero genealogico che gronda sangue. Gareth, il padre della discendenza protagonista in Bull Mountain, Clayton e Halford (nonché di Buckley, ormai fantasma) ha visto uccidere Rye alias Riley, il fratello di suo padre Cooper durante una battuta di caccia. L’hanno sepolto nel bosco, sulle colline impervie della Virginia, senza esitare: il dominio del clan dei Burroughs non riguarda soltanto il prosperare dei traffici illegali, che nel corso degli anni sono passati dal contrabbando di whiskey, alla marijuana e alle metanfetamine (sempre con il corollario di uno sproposito di armi e munizioni), ma anche e soprattutto il controllo del territorio. Tradotto nel loro ridottissimo linguaggio, significa rendersi invisibili su un versante inaccessibile delle montagne, che è come abitare la faccia nascosta della luna. Lì, i Burroughs, immersi in una fittissima nebbia alcolica, conducono un’esistenza determinata dalla violenza costante, persistente, ossessiva e a senso unico, nell’intenzione di determinare i destini comuni. Le regole vengono dettate dal primordiale principio della forza bruta applicata senza avvertimento, con una crescente potenza di fuoco e non c’è distinzione possibile: gli affari sono la famiglia, e la famiglia è Bull Mountain. La variabile nella stirpe dei Burroughs è Clayton, il più giovane essendo nato nel 1972, che viene eletto sceriffo, un paradosso che rende bene l’idea del clima di Bull Mountain, perché nessuno è così temerario da candidarsi contro un Burroughs e d’altra parte lo votano tutti. Lui scende a valle e si sposa, mentre il fratello, Halford, di dieci anni più vecchio, rimane a presidiare le fortezze e i commerci nei boschi. Il tentativo di Clayton di lasciarsi alle spalle le radici di Bull Mountain, dato che “per quanto ostile, quel posto era casa sua”, viene messo a rischio dalla missione di Simon Holly, un agente federale che si presenta nell’ufficio dello sceriffo con un’ambigua offerta per i Burroughs, ma i cui veri obiettivi rimangono oscuri e inconfessabili. Qualche sospetto matura scrutando nell’altro lato di Bull Mountain, quello femminile. Il terreno dei Burroughs è maschile, macho e maschilista all’estremo e fa sì che le uniche tre donne che intersecano la saga costituiscano anche altrettanti elementi di svolta nella storia di Bull Mountain. La prima (Annette Henson Burroughs, ovvero la moglie di Gareth e madre di Halford, Clayton e Buckely) fugge senza voltarsi e sparisce per sempre, ma il vuoto che lascia è un buco nero. Un’altra ragazza prova a crescere un figlio in condizioni disumane, ovvero mentre non riesce nemmeno a badare a se stessa. L’ultima, la moglie di Clayton, dubita, vigila e attende mentre un nodo scorsoio scorre lungo i crinali fino al centro della contea, e viceversa, lasciando ben poca speranza sul terreno perché, come dice James Ellroy, Bull Mountain “ha tutto: whiskey, droga e caos”. La scrittura di Brian Panowich punta all’essenziale, è ruspante e avvincente, non cerca né il colpo di scena, né la suspense: è chiaro in ogni singolo passaggio di Bull Mountain che la famiglia Burroughs è la nemesi di se stessa. Piuttosto, i ritmi sincopati e i toni coloriti, che ricordano l’abilità di James Crumley, spingono a sovrapporsi e a mescolarsi alcuni miti e cliché tutti americani, che Brian Panowich maneggia con perizia. Dalla wilderness che, oltre a offrire una casa garantisce una sorta di una sorta di indipendenza inviolabile e incontrollabile, alla proprietà e al disinvolto uso delle armi, dalla cruda e spartana realtà “white trash” alla cultura dei fuorilegge e per estensione dell’outsider, Bull Mountain è un concentrato esplosivo che non lascia scampo. Colonna sonora, obbligatoria: Lynyrd Skynyrd, a tutto volume.

giovedì 1 giugno 2017

Patti Smith

Il sogno raccontato nel verso iniziale di People Have The Power, la prima canzone di Dream Of Life, assumerà forme diverse e fluttuando nel corso del tempo, segnerà le tappe della parabola di Patti Smith cominciata sul finire del ventesimo secolo. Come il riflesso di uno di quei momenti che paiono non finire mai, l’idea di Dream Of Life appare per la prima volta proprio con l’omonimo disco del 1988, un album che riportava Patti Smith alla vita pubblica, dopo un esilio volontario di (quasi) dieci anni. Quando quel titolo riappare, nella forma del film di Steven Sebring, le immagini rincorrono un altro comeback, quello del 1996, quando Patti Smith è tornata sui palchi con il suo gruppo, ripresa nel corso del tour. Una costellazione di ricordi che brilla per il senso del movimento, il rock’n’roll e la vita on the road, il cameratismo e la fatica, le Stratocaster strapazzate senza pietà e le Polaroid conservate con cura, i piedi nudi e gli stivali. Un album del passato e un diario del presente, che nel libro viene scarnificato e sublimato nelll’immobilità degli scatti, spesso sfocati, indefiniti, prodotti da strane geometrie come se, più che fissare un tempo, Patti Smith avesse voluto collocare una prospettiva. Ogni angolo diventa luogo d’elezione per un simbolo, un rituale, una magia: il palco e il backstage, l’arte a New York e la famiglia a Detroit, la strada e l’oceano, ogni attimo è quello buono per intercettare quella singola scintilla, quel “qualcosa di diverso” che Patti Smith ha sempre sentito, ammirato e inseguito. Tutto un immaginario che si autoalimenta e che si riproduce senza soluzione di continuità, con le fotografie che diventano un collage labirintico, complicato, più che descritto, dalle brevi didascalie di Patti Smith. Alla fine, Dream Of Life rimane fedele al suo titolo paradossale: le istantanee in bianco e nero, i ritratti a colori, gli schizzi e gli appunti scorrono in un flusso di coscienza fatto di immagini, più che di parole, una sorta di confessione visiva che si evolve nella declinazione di un paesaggio interiore. Patti Smith racconta che “qui, proprio dentro di me, ho trovato un luogo incantato, solo perché si è lasciato trovare”, frutto dell’osservazione costante, di una curiosità indomita, fonte principale quella che chiama “la gioia di avanzare lungo un processo di scoperta”. In parallelo scorre costante, come sarà determinante negli anni successivi fino a oggi, l’idea dell’omaggio e della gratitudine a mentori, ispiratori, complici, eroi: Robert Mapplethorpe, Bob Dylan, Jackson Pollock, Lenny Kaye, Allen Ginsberg, Harry Smith, William Blake, Michael Stipe, Philip Glass, i genitori, i figli e il marito, Fred Sonic Smith immortalato ancora, fino all’ultimo, nel frontespizio finale. In questo senso, Dream Of Life termina la “missione” cominciata dalla canzone e dal disco e proseguita attraverso il documentario di Steven Sebring: tra un’onda e l’altra, in mezzo c’è il sogno di una vita trascorsa a rincorrere un ideale di bellezza.