venerdì 21 aprile 2017

Claire Cameron

Il linguista canadese Edwin G. Pulleyblank, citato da Tom Wolfe in Il regno della parola, scriveva: “La nostra capacità, attraverso il linguaggio, di manipolare il mondo mentale e interagire così creativamente con il mondo dell’esperienza è stata un fattore primario, forse il principale, che ha conferito agli esseri umani il loro straordinario vantaggio sulle altre specie in termini di evoluzione culturale più che di evoluzione biologica”. Questa definizione sembra esplorata ed espansa in un romanzo intelligente, originale e a tratti persino divertente perché sovrapponendo i toni del dramma e della commedia con L’ultima dei Neanderthal, Claire Cameron è riuscita a sottolineare le principali distinzioni tra necessità primordiali (il calore, il cibo) e le priorità moderne (i soldi, le comunicazioni) di due mondi che rimbalzano uno verso l’altro a distanza di migliaia e migliaia di anni. Nel fluire dei contrasti e delle coincidenze due donne si incontrano: Rose e la ragazza di Neanderthal stanno per diventare madri e la prospettiva, anche se divisa in due corsie narrative separate, è palese: la nascita contiene in sé il passato e il destino, e l’urgenza del rinnovamento, che è sempre il primo passo per evitare l’estinzione. Le storie si alternano, ponendo un chiaro interrogativo sulle differenze e sui contatti tra l’uomo moderno e quello di Neanderthal. Nel mondo di Rose (il nostro) le persone sono disperse tra Londra, New York e un angolo circondato dalla lavanda in Francia. Le relazioni sono sostenute dalle forme linguistiche filtrate dalla tecnologia e dai contratti sociali, e i bisogni essenziali si sovrappongono ai desideri personali. Nell’era dei Neanderthal c’è una ridotta e fragile comunità, esposta alle intemperie e ai pericoli degli altri animali, che vive nelle capanne di pelli, nelle caverne e sugli alberi, contando le stagioni, aspettando “la corsa dei pesci” e osservando con rispetto gli orsi, annusando l'aria, sempre assecondando l'istinto perché essendo carne o mangerai o sarai mangiata e “nessuno di loro poteva immaginarsi separato dagli altri”. L’incontro tra le due donne arriva nella terra, grazie a uno scavo archeologico: una, L’ultima dei Neanderthal, è ormai fossile mentr l’altra più viva e combattuta che mai: Rose deve mettere alla luce il figlio e deve portare in superficie i resti degli antenati del genere umano. La sfida implicita era raccontare un mondo retto dal ridotto uso del linguaggio, dove “le parole potevano essere vuote, ricambiare un gesto era pieno di significato”, ma anche della vista, considerata il più limitato dei sensi, perché la salvezza è più nell’ascoltare che nel vedere: quando riesci a distinguere un leopardo vuol dire che ormai sei troppo vicino. Claire Cameron è riuscita nella spericolata impresa di spiegare, questi e altri dettagli, con un tono frizzante, riuscendo a dare una dignità ancestrale alla scoreggia così come a rendere credibili gli istinti peggiori alimentati dai morsi della fame o a elevare qualche interrogativo sulle intersezioni tra le vite dei Neanderthal e quelle degli esseri umani così come li conosciamo. Con altrettanta grazia, ha potuto alternare un ambiente in cui tutto si muove attraverso il virus del linguaggio e a spiegare che “essendo esseri umani, preferiamo il racconto più semplice sull’evoluzione della nostra specie: ovvero che ci siamo evoluti da esseri primitivi e abbiamo raggiunto la perfezione”. Con L’ultima dei Neanderthal, Claire Cameron suggerisce che forse la metamorfosi non è stata del tutto lineare e la prova più evidente è che non siamo così perfetti.

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