lunedì 27 marzo 2017

Lawrence Ferlinghetti

Un po’ flusso di coscienza, un po’ Diari di viaggio e di letteratura, queste note di Lawrence Ferlinghetti contengono molto, se non tutto, dello spirito della Beat Generation, con una prospettiva singolare, informale, intima e pubblica nello stesso tempo. Viaggiatore infaticabile, convinto che “la poesia è ciò che si perde”, Lawrence Ferlinghetti si lascia confondere dal labirinto del mondo, tra i vicoli di Parigi in particolare e della Francia in generale (una sorta di seconda patria) e le peripezie negli ospedali russi, Nagasaki e un arresto a Brescia mentre cercava la casa del padre, la Spagna e Marrakech, New York e New Orleans. Sospinto da “una leggerezza strana, un senso di vertigine, uno stordimento, una sensazione di svenimento, un disorientamento, un’euforia psichedelica, quasi come se la terra avesse smesso di girare per un istante, come se il tempo si fosse fermato per un istante, e un tremolio di luce, come se l’oracolo fosse a portata di mano, sul punto di parlare”, in Messico è accolto dal fantasma (ricorrente) di Malcom Lovry al punto che Lawrence Ferlinghetti si immedesima nel console di Sotto il vulcano. Non è l’unica deviazione: ci sono anche trip psichedelici (grazie al peyote) non sempre a buon fine, come succede nell’esilarante incontro con Octavio Paz, ma le immagini sono sempre vivide, fresche, immediate, frutto di un istinto innato per le parole. E’ un registro di incontri e riferimenti letterari intorno al globo, con Ernesto Cardenal nel Nicaragua sandinista, Samuel Beckett evocato a fasi alterne, Ingeborg Bachmann a Roma, Allen Ginsberg sempre & ovunque e Henry Miller quando si aggira per L’incubo ad aria condizionata e a Big Sur scrive, nel settembre 1961: “Vedo cose buie attraversare il paese”. Lo spirito è molto fedele alle logiche dell’improvvisazione, degli appunti e degli schizzi, ed è giusto così: “A volte è meglio non sapere nulla di un paese quando lo visiti. In particolare è importante non conoscere la sua lingua o le sue lingue. Così ogni suono, colpendo l’orecchio come un campanellino o il verso di un animale, senza alcun significato associativo, assume la qualità immediata della poesia, la qualità del colore puro in pittura, con l’effetto percussivo del suono puro e vuoto. E’ solo mentre questi suoni si accumulano dentro di noi che qualche tipo di significato composito prende forma”. La mole della raccolta comprende i resoconti delle sue peregrinazioni oniriche (“Ho sognato tutto, io da solo, comprendendo ogni cosa”), una bella dose di autoironia (“Ho visto le menti migliori di varie generazioni di vari paesi uccise dalla noia ai reading di poesia”) e tutti “i miti che adagiamo su noi stessi”, compreso l’appuntamento con l’oracolo di Delfi, conclusione simbolica di un’indomita odissea. Lawrence Ferlinghetti è “più poetico perché più umano”, e non il contrario, e così conferma il mood delle sue scritture sulla strada: “L’innocenza persiste, follemente inesauribile, nonostante tutto. La strada non finisce. E’ come se la radio non stesse suonando. C’è un’immobilità nell’aria, nella luce del crepuscolo, negli occhi fissi in avanti, nella fine immobile della vita, una dolcezza intollerabile”. Sì, come dice Patti Smith, questa è proprio “la voce inconfondibile del poeta, del vagabondo americano”, che, in Messico, scrive: “I galli cantano tutta la notte. Deve essere la fine del mondo”. Succede, dopo un secolo di vita “dissidente” e dedicata alla poesia: eroico.

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