martedì 14 marzo 2017

Henry Miller

Introdotta da Kenneth Rexroth, questa raccolta di frammenti è una sorta di salto in lungo avanti e indietro nel tempo, in cerca di qualcosa che non c’è più o non c’è ancora. L’assemblaggio, per niente organico, un po’ scomposto, ha come unico fattore dominante la voce di Henry Miller, spezzata dalle linee di demarcazione, storiche e geografiche, della seconda guerra mondiale. Un cadavere ancora caldo che in Il veterano alcoolizato con il cranio ondulato, viene attribuito a quella logica per cui viene ordinato “a milioni di innocenti di sterminarsi a vicenda, e quando il sacrificio è compiuto autorizziamo un pugno di uomini bigotti e ambiziosi, che non hanno mi saputo che cosa sia la sofferenza, a riorganizzare le nostre vite”. Cosa c’è di sbagliato in queste parole? Niente, purtroppo, perché si possono adattare senz’altra variazione a qualsiasi giorno dal 1955, ovvero da quando sono state scritte, a oggi. Una prima diretta conseguenza è l’ammissione che una percezione del destino si è frantumata e ormai non ci sia “nulla da cui ricavare poesia, a parte la morte e la desolazione. Non si può far una poesia su un’automobile o una cabina telefonica. Prima di tutto, è il cuor che deve essere intatto. Bisogna essere capaci di credere in qualcosa”. Nello specifico momento Henry Miller si accontenta di seguire il flusso dei racconti, sapendo che “quando una storia si ascolta volentieri, se si in seguito salta fuori che si trattava di una menzogna, tanto meglio, una bella menzogna mi piace quanto la verità. Una storia è sempre una storia, vera o inventata che sia”. Non è molto, ed è la giustificazione, abbastanza fragile, che regge un delirio come Fricassea astrologica (basta il titolo) o la prosopopea delle divagazioni, sue o dei suoi ospiti, che poi trovano in Dieppe-Newhaven e ritorno tutto lo spazio, fin troppo, una specie di varco temporale per riprendersi il tempo dei Giorni tranquilli a Clichy, compresa una colorita boutade sulla natura e sull’essenza di Tropico del Cancro. Molto più definito Il ponte di Brooklyn che evidenzia, una volta di più, quella capacità di elevare i luoghi a qualcosa di leggendario, con una vita propria. Qui, nel magma della scrittura di Henry Miller si possono ritrovare accenni di Primavera nera e la lucidità che pervade L’incubo ad aria condizionata quando scrive: “Quella che viene chiamata storia è soltanto la carta sismografica delle esplosioni e corrosioni prodotte dall’aborto di un nuovo e salutare tipo di uomo in non si sa quale oscuro periodo del passato. Questo passato, come il futuro che lo dissolverà, si nutre della coscienza dell’uomo di oggi. L’uomo d’oggi viene trasportato dalla sua stessa corrente; i suoi momenti di maggiore chiarezza non sono diversi nella qualità e nella trama della stoffa dei sogni. La sua vita è come una cresta schiumante di una lunga ondata che sta per frangersi sulla costa di un continente sconosciuto. Ha lanciato i suoi detriti davanti a sé; si infrangerà pulito contro una solida muraglia di flutti”. Il più vivido dei racconti è quello dedicato a Mademoiselle Claude, la dimostrazione vivente che “in un certo senso, la parola prostituta non è abbastanza grande”. L’ammirazione è incondizionata e le parole per Mademoiselle Claude sono le uniche proiettate con decisione verso il futuro: “Sento che anche se vivo con un angelo, dovrei cercar di fare un uomo di me stesso. Dovremmo andarcene da questo lurido buco, a vivere da qualche parte nel sole, una camera con il balcone che dà sul fiume, uccelli, fiori, la vita che scorre, soltanto lei e io e niente altro”. Henry Miller è determinato nel proposito, così come nella sua negazione: “Non voglio dire che non era sincero quel che avevo scritto, ma dopo quel primo gesto spontaneo, non so, era soltanto letteratura”. C’è molto Henry Miller in queste notti di riso e d’amore, ma è disordinato, contraddittorio e sparso in briciole prima e dopo la guerra, al punto che Porto Poros, l’estratto da Il colosso di Marussi messo in fondo, sembra voler ricominciare, ed è solo il ricordo di “una stella finita”.

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