venerdì 10 marzo 2017

Charles Bukowski

Dieci anni delle lettere di Bukowski agli amici, agli editori, ai redattori e ai biografi offrono uno spaccato molto articolato e complesso dell’uomo, dello scrittore, del sognatore. A differenza della limita immagine pubblica, emerge un’altra faccia, dalle lettere che Bukowski inviava di volta in volta ai numerosi corrispondenti del suo inner circle. Per quanto disordinato, per non dire caotico, il suo epistolario è la prova concreta di una dedizione appassionata e assidua. Forse Bukowski non era così indisciplinato come voleva apparire, ed è probabile che non fosse nemmeno “un gran lavoratore”, come l’ha definito spesso Fernanda Pivano, a dispetto dei cliché che gli hanno incollato addosso. Di fatto, Urla dal balcone misura una bella fetta della sua eredità, anche perché Bukowski si concede con la consueta e disarmante sincerità, e tra le tante ipotesi sull’essere o non essere, ci aggiunge una sua peculiare definizione: “Non voglio recitare la parte dell’ubriacone; è soltanto che le cose che mi ricordo fanno venire una tale nausea”. Ecco, prese in gruppo, le lettere del Buk non solo offrono una prospettiva sulla sua convulsa quotidianità, ma danno forma anche ad una sorta di catalogo delle idee sulla scrittura (“Ma la scrittura, ovviamente, come il matrimonio, le nevicate o le gomme delle macchine, non dura per sempre. Capita che ti addormenti mercoledì notte che sei uno scrittore, e ti svegli giovedì mattina che sei tutt’altro. O magari vai a letto mercoledì che sei un idraulico, e ti svegli giovedì che sei uno scrittore. Questo è il genere di scrittori migliore che ci sia”), sulla poesia (“Scrivere poesie non è difficile; è difficile viverle. Siamo realistici: ogni volta che diciamo buongiorno a qualcuno senza intendere davvero augurargli una buona giornata, siamo un po’ meno vivi”) e sullo stile (“Per ottenere un buono stile bisogna innanzitutto essere privi di pretenziosità, e ciò che è pretenzioso cambia di anno in anno di giorno in giorno di minuto in minuto. Dobbiamo stare molto attenti. Un uomo non diventa vecchio perché si avvicina alla morte; un uomo diventa vecchio perché non riesce più a distinguere il buono dal falso. Ok, basta discorsi retorici”). Altrove è difficile trovare un Bukowksi altrettanto teorico ed idealista, ma quello che sorprende è scoprirlo attentissimo a schivare i luoghi comuni e le banalità anche nei rapporti epistolari d'uso quotidiano. Infatti non si lascia trascinare dalle polemiche, dall’euforia e dalle follie di quegli anni bollenti e irrisolti (dal 1959 al 1969), decide di confermarsi come il principe degli outsider (“Certifico la mia esistenza in vita. Sono vivo e bevo birra”). e sembra quasi profetico quando scrive: “Non abbiamo bisogno di abbattere un bel niente. E’ tempo che cominciamo a raccogliere quello che resta, e a conservarlo con cura”. Un Bukowski sincero, umanissimo e persino accorato, come quando scrive a John William Corrington, il 27 maggio 1962: “Noi andiamo avanti con le nostre piccole poesie, e aspettiamo”. Una specie di autobiografia spedita al mondo intero, senza ricevuta di ritorno.

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