domenica 26 febbraio 2017

Kent Haruf

L’incontro lungo una stagione di Addie Moore e Louis Waters in Le nostre anime di notte è la tregua di una condizione, dell’essere due e non più uno, dell’essere uno e non più due, l’idea di prendersi tutto il tempo che serve, visto che è quello che rimane, e non soltanto, anche quella, come direbbe Robert Frost, di “incontrarsi e passar oltre”: l’intimità di una compagnia che è un’acrobazia tra le solitudini di un uomo e di una donna. L’equilibrio rende la storia di Louis e Addie fragile e delicata, ma tutt’altro che consolatoria: l’età che non chiede nulla di più, se non affrontare il negativo del giorno (cos’è la notte, in fondo?), rincorrendo una tranquillità che pare impossibile, sfuggente, anche nel tentativo di “aggiustare le vite degli altri”, che è sempre una missione complicata. Per questo, per quanto il rapporto tra Addie e Louis si regga su una condizione frugale e fortuita in sé, è una dichiarazione di indipendenza da Holt, dalle sue logiche circoscritte e limitate. Kent Haruf guarda a est e lì sposta anche piccoli dettagli, con i suoi personaggi che però alla fine vanno a ovest, dove nel corso del romanzo avvengono gli episodi più importanti. Il richiamo alle coordinate dell’aurora e del crepuscolo è ambivalente e in questa metamorfosi dell’orientamento, i giorni di campeggio fuori da Holt sono intercambiabili con La felicità ripaga in profondità quel che le manca in lunghezza di Robert Frost. Il titolo induce già in tentazione e i paralleli possono durare per (quasi) tutte le pagine: a volte sono palesi, altrimenti sono connessioni più sottili e nascoste, partendo con “la necessità di essere versati nelle cose campestri” per arrivare a chiedersi “se pure possa esservi disegno, in così piccola cosa”. Quello che collima è il senso di “accettazione” di cui è pervaso Le nostre anime di notte, che sembra il tentativo, peraltro riuscito senza eccezioni, di trasporre in prosa tutta la Conoscenza della notte di Robert Frost. Il suo nome è dissimulato all’interno di una lista dei poeti letti “a memoria” da Louis, ma è soltanto un primo indizio tra i tanti disseminati da Kent Haruf. C’è una serie di coincidenze impressionanti, e non soltanto per il naturale accostamento con il proposito di “attraversare la notte insieme”, per cui comunque la risposta più efficace è ancora del poeta, quando scrive che “il miglior modo di uscirne è sempre di passarci”. E’ proprio nel tono, in quel “suono del senso” che viene attribuito alle parole, ai dialoghi e che viene donato al lettore, non imposto, non forzato e neppure così semplice come potrebbe sembrare in apparenza, in superficie, che l’associazione con Robert Frost diventa più evidente come se Le nostre anime di notte fosse un sinuoso bassorilievo ricavato sulle linee delle poesie perché si svolge tutto nelle voci soffuse, eppure così marcate, così definite, di due persone che si parlano nel buio, tenendosi per mano. Quando quel legame che Addie e Louis hanno costruito frase per frase, silenzio per silenzio, gesto per gesto, con fatica, misurando i passi, contando le luci e le ombre, viene interrotto dall’interno, dalla ricomposizione forzata del concetto di famiglia, si intuisce che il valore delle parole è mutevole e nel processo di affrontare “i piccoli fatti di ogni giorno” si celano insidie velenose, e impietose. In soccorso, nel finale, è necessario richiamare Robert Frost. Quando scrive che “per il tempo che parlammo tu sembravi sorridere a qualcosa”, è impossibile non mettere Louis all’inizio del verso e Addie alla fine. E’ così che il commiato di Kent Haruf si rivela l’omaggio al lettore attento e scrupoloso che per tutta la vita si è nascosto dietro il mestiere dello scrittore.

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