mercoledì 25 gennaio 2017

Mike Davis

Mike Davis parte da molto lontano a delineare quella che chiama La dialettica del banale disastro, dove per comune e consolidata accezione un disastro non è mai banale, è (o, almeno, dovrebbe essere) sempre eccezionale. L’ossimoro in sé è usato da Mike Davis per spiegare, anzi, per introdurre le Geografie della paura da un versante inaspettato, quello delle parole, della percezione, della comunicazione, delle ricostruzioni e delle leggende. Cataclismi, alluvioni, siccità, incendi, tornado, fenomeni climatici estremi, rari o frequenti che siano, non sono allineati uno dopo l’altro per evocare chissà giudizio universale o fine del mondo che sia, ma per sottolineare come l’intervento umano alias l’urbanizzazione a tappe forzate abbia generato un’aberrazione del luogo nella forma di una città che non è una città ovvero è diventata “un falso paesaggio che celebrava una storia fittizia”. La diretta conseguenza di questo primo salto carpiato nella dialettica è che “la costruzione del disastro naturale è in gran parte celata da un modo di pensare che al tempo stesso impone false aspettative sull’ambiente e quindi giustifica le delusioni inevitabili come altrettante dimostrazioni di una natura maligna e ostile”. Più chiaro di così, è impossibile ed è Los Angeles la dimostrazione di come “l’umanità ha conquistato la natura invece di adattarcisi”, una definizione di Richard Lillard che d’altra parte collima con “la sensazione di un disastro imminente” evocata da Stephen Pyne. La sensazione è confermata dall’imponente ricerca, dalla mole delle statistiche e dal rigore delle analisi che porta Mike Davis a sostenere: “che la paranoia riguardo la natura distoglie l’attenzione dei più dall’ovvio dato che Los Angeles si sia messa volutamente sulla traiettoria dei guai. Per generazioni intere l’urbanizzazione spinta dagli interessi di mercato ha dimenticato ogni buon senso ambientale”. Guardandolo dall’alto, lo “sprawl urbano” richiamato da William Whyte, non è soltanto la dispersione senza coordinate, pianificazioni o confini della metropoli. E’ una sorta di deprivazione sensoriale dell’essenza del territorio, che introduce quella pericolosa ambiguità che Kenneth Hewitt riassume così: “La maggior parte dei disastri naturali costituisce un aspetto caratteristico e tutt’altro che accidentale dei luoghi e delle società in cui si verifica”. Va compreso nel contesto anche il rapporto con la flora e la fauna perché l’ecosistema californiano come scriveva Carey McWilliams è “un’isola sulla terra”, con tutto quanto ne consegue. Se l’allevamento, la caccia e più in generale la convivenza con il resto del mondo animale ricorda i romanzi di Cormac McCarthy o Butcher’s Crossing di John Williams o Il figlio di Philipp Meyer, ci sono variazioni sensibili e imprevedibili: “Il terrore da puma, panici simili di fronte a serpenti sulla spiaggia e altri strani fenomeni paranaturali (compresi i coyote mangiarifiuti, gli orsi neri nelle vasche da bagno, gli scoiattoli apportatori di epidemie, le api assassine e anche i vampiri succhiacapre), deve essere preso sul serio in quanto sintomo di una crisi più ampia tra la metropoli e il suo ambiente”. Non di meno il rapporto tra gli esseri umani, visto che tra le Geografie della paura viene inserito anche l’allarmante demografia della popolazione carceraria. Le condizioni dei detenuti, il peso dell’istituzione in sé sui bilanci, l’intervento privato (anche in un campo molto delicato come l’amministrazione della giustizia) e la militarizzazione dell’ambiente si pongono come ultime e definitive traduzioni delle Geografie della paura che alla fine sono riassunte da Jeff Unruh in una verità che appare persino ovvia: “La topografia non è un caso”. La distopia di Los Angeles diventa comprensibile allora solo attraverso la fantascienza, ovvero Blade Runner, ma la spettacolarizzazione dei disastri (siamo a Hollywood, dopo tutto) non è solo la versione fiction delle Geografie della paura, perché come precisa Mike Davis, “l’industria dello spettacolo ha invertito la decadenza del vecchio splendore in un nuovo splendore della decadenza”. Nel finale si concede anche una postilla vagamente poetica, ma non meno drammatica nel ricordare che Los Angeles vista dal satellite nella primavera del 1992 era “un’anomalia termica”. E’ lì, in quelle Geografie della paura, che si discute addirittura se non sia il caso di privatizzare l’industria degli incendi, perché certe logiche non si fermano davanti a niente, nemmeno di fronte all’apocalisse.

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