giovedì 19 gennaio 2017

James Ellroy

James Ellroy sguazza con perfida allegria nelle nuove e antiche paure riemerse dopo l’11 settembre 2001. Gli viene spontaneo e naturale ambientare la Jungletown Jihad nel substrato di una città che in effetti non è una città, è un’espressione senza forma di una moltitudine di ghetti e roccaforti. La sua conoscenza della street life di Los Angeles gli permette di muoversi a suo agio, e non solo, perché James Ellroy traduce in narrativa, nella sua singolare, sincopata e brutale narrativa, quelli che Mike Davis in Geografie della paura chiama Impulsi omicidi e panorami in fiamme, come se le pulsioni di un’intera una “metropoli in fase esplosiva”, come la definiva William Whyte filtrassero attraverso il terreno e contaminassero le persone e i personaggi. L’impatto, va da sé, è durissimo: le contrazioni di una lingua che, strapazzata e storpiata pezzo per pezzo, parola per parola, diventa gergo, slang, invettiva collimano alla perfezione con la trama psicotica di Jungletown Jihad. Succede che Rick Jenson scomodo detective del dipartimento di di Los Angeles incrocia un contorto progetto terroristico finanziato dal mercato pornografico nelle sue peggiori perversioni. Siamo a Hollywood, dopo tutto, e il mondo fittizio e surreale del cinema (dove nel frattempo stanno provando a mettere in piedi un film su Ann Sexton) è comunque un’altra forma di vita rispetto al resto del pianeta. Rick Jenson non ci casca, si difende con metodi meno che ortodossi e men che meno istituzionali, ripara da Donna Dohanue, una femme fatale tra le più in vista di sempre nella fiction di James Ellroy e non fa distinzioni tra “delitti ignobili” che abbiano non abbiano una matrice politica. Nella sua immaginazione sono tutti “farabutti con fini criminali” e James Ellroy non restano alternative se non crogiolarsi nell’infimo e alzare il tiro: il racconto è scorticato, le frasi sono bruciate e masticate, il tono è per niente corretto, anzi, è più spudorato che mai. La considerazione nei confronti dei connazionali (per non dire del resto dell’umanità) è al minimo storico, il diluvio di alcol e droghe inarrestabile, lo svolgimento brutale, tambureggiante, senza respiro. Se lo si asseconda, Jungletown Jihad può anche considerarsi un’apoteosi nello stile di James Ellroy con i suoi sarcastici neologismi, la sua sprezzante disposizione verso regole, limiti e definizioni. Ovvero una logica autocelebrazione di James Ellroy, solo che Jungletown Jihad annuncia molto, forse troppo perché rimane inchiodato sul punto: la storia sembra contorcersi su se stessa, elenca con una frenesia cinematografica (e anche con una certa fretta) i movimenti nelle strade, poi torna con insistenza a Rick Jenson e a Donna Dohanue, come se ci fosse qualcos’altro da raccontare che però deve essere andato perso nelle strade di Los Angeles. Pare evidente che la forma ridotta di Jungletown Jihad non è sufficiente: James Ellory ha bisogno di molto più spazio e di molto più tempo per avvelenare e ipnotizzare il lettore a cui, in questo caso, resta soltanto un’indefinita sensazione di incompiutezza.

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