martedì 13 dicembre 2016

Walt Whitman

Negli anni della guerra civile fino all’assassinio di Abraham Lincoln, Walt Whitman si offre volontario nell’accudire i feriti, i moribondi e i prigionieri. E’ l’amico che passa nelle corsie degli ospedali, è l’ideologo di una rivoluzione amputata dalla secessione, è il custode di una promessa, è la voce libera di una nazione che, in tutta la sua fragile costituzione, si trova ad affrontare uno “sconvolgimento vulcanico”. Le sue annotazioni sono febbrili, urgenti e ambivalenti. Da una parte, “un’occhiata alle infernali scene di guerra”, le inaudite sofferenze, i feriti e i morti protagonisti di “una tragedia così profonda che nessuna voce di poeta può mai aver cantato o raccontato. Da queste pagine si sollevano corpi veri, reali, che si muovono e respirano”. Sull’altra faccia della medaglia, Walt Whitman non resiste alla tentazione del racconto epico dei valorosi combattimenti corpo a corpo, di “un migliaio di imprese valorose, ciascuna delle quali meriterebbe d’essere ricordata in poesie in uno stile nuovo e più grande”. La partecipazione e il trasporto sono totali, incondizionati: Walt Whitman invoca, per tutti, “uno spirito tanto forte quanto dolce, come ce ne sono sempre stati, da che mondo è mondo” e si lascia trascinare dalla convulsione di quel momento riempiendo i suoi taccuini di “rapidi sguardi non sistematici gettati in quella vita, e negli interni foschi e lividi di quel periodo, che meritano di essere ricordati in futuro”. La speranza è riposta soltanto nell’incrollabile fiducia nell’ideale americano, messo a repentaglio da una guerra che “ha dimostrato umanità, e ha dimostrato pure cosa sia l’America e la modernità”. Lasciato il campo dell’assistenza, della compassione, delle storie di figli e madri distrutti per sempre, Walt Whitman legge il “destino manifesto” secondo un vocabolario in gran parte inedito. Spinto dall’esperienza diretta di atrocità inaudite, ammette con pubblico candore che “noi abbiamo bisogno di questa urticante lezione d’odio generale, e d’ora in poi non dovremo mai più dimenticarcene”. L’auspicio ha un valore assoluto: anche nelle condizioni frammentarie imposte dalle circostanze belliche alle pagine del suo diario, Walt Whitman non nasconde di aver compreso l’intima e profonda origine delle divisioni americane e si chiede “dopo tutto, cos’è ogni nazione, e che cos’è un essere umano, se non una lotta tra opposti elementi confliggenti e paradossali, e cosa sono questi stessi elementi se non parti importanti di quell’unica identità e del suo divenire?” La retorica della domanda rivela che la frattura è stata articolata, non era soltanto in orizzontale, tra gli stati unionisti e secessionisti, ma anche lungo una direttrice verticale, dentro l’identità stessa della nazione, del governo del popolo per il popolo, quando invece, proprio nel corso di quegli eventi sanguinosi e drammatici, “il singolo e l’insieme di sono rivelati superbamente all’altezza, l’organizzazione militare, il potere d’indirizzo, le sue direttive si sono invece rivelati rozzi e illegittimi, peggio che deficienti, offensivi e radicalmente sbagliati”. La separazione diventa palpabile quando Walt Whitman avendo sperimentato l’incertezza e l’ambiguità nelle retrovie politiche di Washington tratteggia in modo inconfondibile Abraham Lincoln “vestito interamente di nero, con guanti di capretto bianchi, e una giacca a coda di rondine, che riceveva le persone come se fosse obbligato farlo, stringeva le mani e sembrava proprio sconsolato, con l’aria di chi avrebbe volentieri dato qualsiasi cosa pur di trovarsi altrove”. E’ ancora più esplicito quando misura in prima persona l’inerzia e l’inefficienza dei governanti, anche di fronte al rischio concreto di una disfatta e al protrarsi di quattro anni in cui si sono concentrate “tempeste di vita e di morte, una miniera inesauribile di vita e di morte”. L’America del poeta resta una nobile illusione, dalla guerra ne è nata un’altra, e le annotazioni diventano via via lapidarie: ci saranno annali e ballate, teorie e ricostruzioni, ma la resa di Walt Whitman arriva quando chiede: “Ma riusciremo mai a sapere le storie delle cose reali?” Secoli dopo, la domanda è sempre lì, ancora più grande, ancora più evidente.

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