mercoledì 23 novembre 2016

Ta-Nehisi Coates

L’idea di Un conto ancora aperto nasce dalla convinzione che alla fonte del razzismo ci sia la speculazione economica e che, con il trascorrere dei decenni e poi dei secoli, causa ed effetto (la speculazione e il razzismo) siano diventati intercambiabili. E’ il motivo per cui Un conto ancora aperto prende le distanze con molta chiarezza dall’illusoria possibilità di riconciliazione senza risarcimento. Una posizione che è implicita già nello svolgimento del sottotitolo. Quando Ta-Nehisi Coates si chiede Quanto valgono duecentocinquant’anni di schiavitù?, non è per niente una domanda retorica. La quantificazione del danno, riconosciuta come diritto a partire da John Locke, è un argomento che ha solide fondamenta. Il furto è concreto e continuato nel tempo, attraverso formule più subdole, raffinate e meno esplicite della schiavitù, ma pur sempre efficaci, e a senso unico. Non solo: come succede nel primo caso raccontato da Ta-Nehisi Coates, quello di Clyde Ross, la distorsione e l’assenza dei diritti lo spingono al punto di rendersi conto che “non viveva sotto lo sguardo bendato della giustizia, ma sotto l’oppressione di un regime che aveva elevato la rapina armata a principio di governo”. Le osservazioni sono radicali perché la condizione è estrema: la depredazione e la conseguente distruzione di un popolo generano una percezione sfasata perché, spiega Ta-Nehisi Coates, “in realtà, in America c’è la bizzarra e profonda convinzione che se pugnali un nero dieci volte smetterà di sanguinare e inizierà a guarire appena mollerai il coltello. Siamo convinti che il predominio bianco appartenga a un passato inerte, che sia un debito colpevole che possiamo cancellare soltanto distogliendo lo sguardo”. E’ evidente che c’è proprio Un conto ancora aperto e lo sforzo maggiore compiuto da Ta-Nehisi Coates è insieme un grido di dolore e di allarme perché “non possiamo fuggire dalla nostra storia. Tutte le soluzioni che abbiamo sperimentato per risolvere grandi problemi come l’assistenza sanitaria, l’istruzione, il diritto alla casa e le diseguaglianze economiche, pagano il prezzo di ciò che non si vuole ammettere”. Ta-Nehisi Coates parte da casi espliciti ed esemplari prima di avvalersi degli strumenti statistici, che sono sempre fluttuanti e hanno bisogno di una giusta collocazione, ma Un conto ancora aperto non deve difendere una teoria, una ricostruzione, un’opinione: il danno compiuto è conclamato, perché gli esseri umani ridotti in schiavitù sono stati trattati e organizzati come merci. Ricorda lo storico David W. Blight: “Nel 1860 gli schiavi come bene patrimoniale valevano più di tutte le produzioni manifatturiere, più dell’intera rete ferroviaria e dell’intera capacità produttiva di tutti gli Stati Uniti messi insieme. Gli schiavi erano di gran lunga il bene di proprietà più importante dell’intera economia americana”. Questo vuol dire un’immane sofferenza perché trattare uomini e donne come parti di ricambio vuol dire distruggere le comunità e “separare una famiglia di schiavi equivaleva di fatto a un assassinio. Ecco dove affondano le loro radici la ricchezza e la democrazia americane: nella lucrosa distruzione del bene più importante a cui ogni individuo possa aspirare, la famiglia. Questa distruzione non è stata un elemento incidentale nell’ascesa dell’America: l’ha facilitata. Attraverso la creazione di una società di schiavi l’America ha potuto gettare le basi economiche per il suo grande esperimento democratico”. Riconoscere l’esigenza di un risarcimento sarebbe (il condizionale è d’obbligo) un decisivo cambio di prospettiva, anche se il saldo finale, per la civiltà tutta, resta negativo. 

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