lunedì 3 ottobre 2016

Ta-Nehisi Coates

Cresciuto tra le gang di Baltimora, dove “la strada trasforma qualsiasi giorno normale in una serie di domande difficili”, Ta-Nehisi Coates si ritrova, adulto e genitore, a fronteggiare il terrore come prima, unica e urgente forma di risposta alle necessità della vita quotidiana. La deportazione, la schiavitù, la segregazione pesano per secoli e secoli e, anche se è vero che “il furto del tempo non si misura in termini di intere esistenze, ma di momenti”, le radici sono avvelenate per sempre. Allora il padre si rivolge al figlio, quindicenne, che deve diventare “un cittadino di questo mondo terrificante e splendido” con una lunga lettera e gli dice, come premessa: “Non hai ancora dovuto fare i conti con i miti in cui credi, devi ancora scoprire l’imbroglio che ci circonda”. La dimensione del legame impone un tono accorato e Ta-Nehisi Coates non si esime, ma essendo cresciuto nella trincea della sua pelle americana Tra me e il mondo è diretto, estremo, impietoso. Nella condizione di un popolo confinato nei ghetti, costretto a misurarsi con i limiti imposti dall’odio e dall’avidità, dall’ignoranza e dall’indifferenza è naturale vedere una proiezione del futuro perché “la distanza è intenzionale come lo è una legge, e l’oblio che ne segue. La distanza consente la selezione mirata tra i derubati e i predoni, i contadini e i padroni della terra, i cannibali e il cibo”. La linea è nitida, senza un cedimento, senza forme consolatorie, nemmeno per rivendicare un’appartenenza, nemmeno per salvare le apparenze, che ormai si sbriciolano ogni giorno di più. Ta-Nehisi Coates sembra gridarlo, mentre lo scrive in Tra me e il mondo: “La banalità della violenza non può scusare l’America, perché l’America non fa proclama di alcuna banalità. L’America si crede eccezionale, la più grande e nobile delle nazioni mai esistita, un campione solitario che si erge tra la bianca città della democrazia e i terroristi, i despoti, i barbari e gli altri nemici della civiltà. Non si può sostenere di essere supereroi ma poi chiedere venia per i propri errori umani”. La lettura è istintiva e immediata, nonostante la complessità delle considerazioni di Ta-Nehisi Coates perché la sua lucidità è un grido d’allarme, anche senza volerlo: la tensione si scioglie soltanto quando ricorda la libertà di un viaggio a Parigi, dove, nonostante l’invalicabile differenza linguistica, si è potuto muovere alleggerito dall’angoscia di essere identificato solo per il colore del suo corpo. Il perno, a cui ruotano intorno tutte le frasi di Tra me e il mondo, è, di fatto, la sospensione più o meno occulta di un diritto inalienabile quale è l’habeas corpus. Ta-Nehisi Coates è soltanto un reporter, non è un avvocato e nemmeno un giudice della corte suprema, ma è proprio quello il solco scavato perché “gli americani hanno letteralmente divinizzato la democrazia, eppure di tanto in tanto l’hanno sfidata e oltraggiata, sebbene non se ne rendano del tutto conto. Ma la democrazia è un dio misericordioso, e le eresie dell’America, la tortura, il saccheggio, lo schiavismo, sono così comuni negli individui e nelle nazioni che nessuno può considerarsene immune” Se c’è una speranza è la consapevolezza che “forse la lotta è tutto ciò che abbiamo perché il dio della storia è ateo, e nulla del suo mondo è perché così deve essere”. Non ci sono sconti, né al figlio, né a nessun altro. Anche davanti a Ground Zero, l’epicentro del futuro, Ta-Nehisi Coates ricorda che laggiù, a Manhattan, c’era il mercato degli schiavi di New York e uomini e donne venivano venduti all’asta.

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