martedì 25 ottobre 2016

Elliott Chaze

La canzone che sottolinea dall’inizio alla fine Il mio angelo ha le ali nere ha una storia particolare perché è If You Got The Money, Honey, I Got The Time, un classico di Lefty Frizzell, scritta con il suo manager, Jim Beck. Registrata dallo storico produttore della Columbia, Don Law, la canzone venne pubblicata il 14 settembre 1950 e rimase per tre settimane al primo posto nelle classifiche country & western (poi ci tornò nel 1976 nell’interpretazione di Willie Nelson). Tim e Virginia l’ascoltano dalla radio di una stanza d’albergo dove s’incontrano. Lui è appena uscito di galera e “la canzone e le parole facevano un effetto strano cantate da lei, con la freschezza di una ragazzina, ma con la voce appena smozzicata di una signora”. Nasce in quel momento una liaison pericolosa e instabile: Tim, come tutti i delinquenti che si rispettino, ha un piano per un ultimo colpo e vede in Virginia la complice ideale. Un po’ perché sa guidare, e un po’ perché “si può dire quello che si vuole, ma in realtà le persone affamate di denaro, quelle voracemente affamate, sono una categoria a parte”. Lei è una femme fatale incontrollabile e risoluta, l’incarnazione vivente del ritornello della canzone di Lefty Frizzell: se tu hai i soldi, dolcezza, io ho tempo. Al centro dei pensieri e dell’azione c’è sempre la rapina da un milione di dollari con tutti i cliché del caso, allineati con rara maestria da Elliott Chaze. E’ un colpo ingegnoso, studiato per non lasciare nessuna traccia, e, come nelle migliori tradizioni, è stato elaborato in carcere, con un compagno di cella, Jeepie, un fantasma che sembra seguire ogni movimento di Tim. Da lì in poi si rischia di rivelare particolari importanti, che toglierebbero la sorpresa al ritmo serrato, sincopato e senza un attimo di tregua di Elliott Chaze. Uno stile molto evoluto rispetto ai dettami (pulp) dell’epoca (siamo nel 1953). Intanto l’ambientazione, almeno nella prima parte, è insolita per un noir, con tutti quei riflessi bucolici nella wilderness, l’acqua chiara e gelida del torrente, la luce del tramonto e la volta stellata di notte. Un paesaggio idilliaco in netto contrasto con le motivazioni oscure che hanno portato lì, sui pendii del Colorado, Virginia e Tim che li legano a quel luogo fino alla fine della storia. La differenza è nitida e sottolineata dalla scrittura di Elliott Chaze che si presta con generosità a illustrare ogni scena, sia che Tim e Virginia si trovino circondati dalla natura, sia che vengano ritratti in cornici più anguste, come il posto nella fabbrica di lamiere per Tim. I luoghi scorrono veloci: anche quando preparano il colpo in un quartiere sonnolento di Denver, dove l’attività principale è innaffiare il giardino o scrutare i movimenti dei vicini, la fuga è soltanto rimandata. E’ il vero elemento trascinante di Il mio angelo ha le ali nere: Tim e Virginia scappano anche dal proprio nome e Elliott Chaze non distoglie mai l’obiettivo e non perde occasione per evidenziare il senso unico a cui sono obbligati perché “nessuno è immune dal pensare”. La vita da fuggiaschi ha i suoi alti e bassi: Tim e Virginia si spostano lungo strade deserte o nella movimentata vita notturna di New Orleans, ma qualcosa li costringe a tornare a guardare nell’oscurità di un pozzo, dove il destino, inevitabile e tragico, li sta aspettando. Il resto è l’abilità (non indifferente) di Elliott Chaze nel servire il contorno, lasciando suonare ancora una volta If You Got The Money, Honey, I Got The Time, anche se ormai, dolcezza, non ci sono più né i soldi né il tempo. Un classico, nerissimo e spietato.

venerdì 21 ottobre 2016

Joni Mitchell

“Le stagioni cambiano ogni giorno. Qualche volta è primavera, qualche volta è niente. Un poeta può cantare, sì, ci prova, prova sempre” cantava invece lei, Joni Mitchell, in Sisotowell Lane. “Una brava ragazza hippie e rock’n’roll” nella definizione di Barney Hoskins, un po’ riduttiva in realtà, visto che l’incanto di Joni Mitchell è la profondità della sua immersione negli abissi dell’amore. Nessuno ha scritto con la sua sensibilità, con la sua intensità e con la sua ricchezza di immagini l’inarticolato linguaggio del cuore, anche quando le storie d’amore sono destinate a sfaldarsi o a concludersi, anche quando l’amore coincide con la felicità (non sempre) o soltanto quando tutte quelle cose selvagge cominciano a correre veloci. Se in effetti il suo songwriting è, come scrisse una delle sue prime biografe Leonore Fleischer, una composizione che ritrae “la fragile natura del cuore e le complesse strade che prende nella sua ricerca di un altro cuore”, la declinazione non è stata univoca. Joni Mitchell è sempre stata salda e ferma nell’accordarsi alle proprietà di un linguaggio mutevole, preservando tutti i filamenti autobiografici, anche i più intimi e lancinanti, come ammetteva lei stessa: “Il dolore ha molto poco a che fare con l’ambiente. Puoi essere seduto nel più bel posto del mondo e non riuscire a vedere niente per il dolore. Nella mia vita ho affrontato molti miei demoni. Un sacco erano davvero stupidi, ma per me sono estremamente reali. Non mi sento colpevole per il mio successo o per il mio stile di vita”. La traduzione, cercandola dentro una canzone, la si trova in Talk To Me: “La mia mente cattura immagini, guida ancora i miei passi di danza anche se è coperta di piaghe”. Questa connotazione era già chiara a Lester Bangs, che sentiva in Joni Mitchell voce e canzoni “per i dolori occasionali e per le poche estasi della tua situazione privata e circoscritta”. Se la sua intenzione è stata quella di “fare musica abbastanza libera da poterla ballare”, con quell’istintivo senso per il ritmo non è riuscita soltanto a “comporre colonne sonore per i momenti di così tante persone”, come ha scritto Lisa Kennedy, ma ha saputo immaginarne i dettagli e le sfumature, attraverso una visione poliedrica dell’arte di raccontare l’amore, i suoi effetti collaterali e le sue controindicazioni. L’aspetto intimista e riflessivo che ricorre nei suoi temi non deve trarre in inganno, il tono è sempre affilato perché Joni Mitchell è “una donna di cuore e di mente” come si presentava nella sua stessa definizione e ancora nel 1996, pur coerente con un innato spirito libero e ribelle, e senza rimpianti, diceva: “Non sono io che sono diventata pessimista, io sono soltanto un testimone. Los Angeles è al centro del cambiamento. Adesso è una città pericolosa in cui vivere. In California, quando scrivevo le mie prime canzoni, c’era un clima del tutto diverso, la gente guidava in modo educato, la sera non si chiudevano a chiave le porte. Se tu mettevi la freccia a sinistra, la gente diceva: ma prego, vada pure. Adesso è una città dove guidano come pazzi. Se metti la freccia, credono che tu voglia superarli, e nessuno a Los Angeles si fa superare, da nessuno”. L’unica gioia in città resta sempre quel folle grido d’amore nascosto tra le pieghe delle sue canzoni e, fosse anche solo per quello, meriterebbe il Nobel pure lei.

lunedì 3 ottobre 2016

Ta-Nehisi Coates

Cresciuto tra le gang di Baltimora, dove “la strada trasforma qualsiasi giorno normale in una serie di domande difficili”, Ta-Nehisi Coates si ritrova, adulto e genitore, a fronteggiare il terrore come prima, unica e urgente forma di risposta alle necessità della vita quotidiana. La deportazione, la schiavitù, la segregazione pesano per secoli e secoli e, anche se è vero che “il furto del tempo non si misura in termini di intere esistenze, ma di momenti”, le radici sono avvelenate per sempre. Allora il padre si rivolge al figlio, quindicenne, che deve diventare “un cittadino di questo mondo terrificante e splendido” con una lunga lettera e gli dice, come premessa: “Non hai ancora dovuto fare i conti con i miti in cui credi, devi ancora scoprire l’imbroglio che ci circonda”. La dimensione del legame impone un tono accorato e Ta-Nehisi Coates non si esime, ma essendo cresciuto nella trincea della sua pelle americana Tra me e il mondo è diretto, estremo, impietoso. Nella condizione di un popolo confinato nei ghetti, costretto a misurarsi con i limiti imposti dall’odio e dall’avidità, dall’ignoranza e dall’indifferenza è naturale vedere una proiezione del futuro perché “la distanza è intenzionale come lo è una legge, e l’oblio che ne segue. La distanza consente la selezione mirata tra i derubati e i predoni, i contadini e i padroni della terra, i cannibali e il cibo”. La linea è nitida, senza un cedimento, senza forme consolatorie, nemmeno per rivendicare un’appartenenza, nemmeno per salvare le apparenze, che ormai si sbriciolano ogni giorno di più. Ta-Nehisi Coates sembra gridarlo, mentre lo scrive in Tra me e il mondo: “La banalità della violenza non può scusare l’America, perché l’America non fa proclama di alcuna banalità. L’America si crede eccezionale, la più grande e nobile delle nazioni mai esistita, un campione solitario che si erge tra la bianca città della democrazia e i terroristi, i despoti, i barbari e gli altri nemici della civiltà. Non si può sostenere di essere supereroi ma poi chiedere venia per i propri errori umani”. La lettura è istintiva e immediata, nonostante la complessità delle considerazioni di Ta-Nehisi Coates perché la sua lucidità è un grido d’allarme, anche senza volerlo: la tensione si scioglie soltanto quando ricorda la libertà di un viaggio a Parigi, dove, nonostante l’invalicabile differenza linguistica, si è potuto muovere alleggerito dall’angoscia di essere identificato solo per il colore del suo corpo. Il perno, a cui ruotano intorno tutte le frasi di Tra me e il mondo, è, di fatto, la sospensione più o meno occulta di un diritto inalienabile quale è l’habeas corpus. Ta-Nehisi Coates è soltanto un reporter, non è un avvocato e nemmeno un giudice della corte suprema, ma è proprio quello il solco scavato perché “gli americani hanno letteralmente divinizzato la democrazia, eppure di tanto in tanto l’hanno sfidata e oltraggiata, sebbene non se ne rendano del tutto conto. Ma la democrazia è un dio misericordioso, e le eresie dell’America, la tortura, il saccheggio, lo schiavismo, sono così comuni negli individui e nelle nazioni che nessuno può considerarsene immune” Se c’è una speranza è la consapevolezza che “forse la lotta è tutto ciò che abbiamo perché il dio della storia è ateo, e nulla del suo mondo è perché così deve essere”. Non ci sono sconti, né al figlio, né a nessun altro. Anche davanti a Ground Zero, l’epicentro del futuro, Ta-Nehisi Coates ricorda che laggiù, a Manhattan, c’era il mercato degli schiavi di New York e uomini e donne venivano venduti all’asta.