giovedì 1 settembre 2016

Mike Davis

Un personaggio descritto nelle note all’inizio della Breve storia dell’autobomba è esemplare per comprendere l’evoluzione di un’arma “di una crudeltà e di una ferocia senza precedenti”. Si tratta di Gundar Yitzhaki, ritenuto l’inventore delle bombe a orologeria e rimasto a lungo un anonimo e spietato artificiere. Facendosi esplodere per errore, nel 1939, ai soldati britannici che lo trovarono dilaniato da un suo stesso ordigno, rivelò così la propria identità: “Il mio nome è morte”. C’è tutta la Breve storia dell’autobomba in quelle ultime parole a piè di pagina. Si tratta di “un’arma universale di distruzione di massa”, la peggiore e la più terribile, la cui diffusione si è propagata come un virus malefico e le cui “conseguenze” esulano di gran lunga gli aspetti bellici. La puntualissima e sintetica ricostruzione di Mike Davis, che parte dall’attentato a Wall Street dell’anarchico italiano Mario Buda nel 1920 e arriva a oggi, è fluida, con il tono avvincente di un romanzo e insieme una serie di valutazioni che spiegano in modo efficace l’intrinseca essenza di quel “manifesto scritto con il sangue degli altri”. La definizione del regista Régis Debray è indispensabile per leggere oltre i risultati devastanti e tragici dell’autobomba. Da un punto di vista strategico, secondo Charles Krauthammer è “il nucleare della guerriglia urbana” e il contesto, o il teatro, per usare un termine più tecnico, porta all’inevitabile conclusione che il suo utilizzo sia “moralmente e tatticamente impermeabile”. Il “sabotaggio urbano” non distingue tra vittime civili e militari, anzi: nel corso della Breve storia dell’autobomba è evidente che gli attentati, le stragi, il terrore sono insieme la causa e l’effetto, l’ordine e il caos, l’inizio e la fine. Come scrive con notevole lucidità Mike Davis, i promotori delle autobombe danno “l’impressione di essere guidati simultaneamente da una disperazione apocalittica e da una speranza utopica”. Questo vale a tutte le latitudini e longitudini, con un’accelerazione preoccupante sul finire del secolo breve perché “gli attacchi dinamitardi degli anni novanta furono una sorta di processo darwiniano che accelerò l’evoluzione dell’autobomba come motore di panico urbano. Il principio era piuttosto semplice: se le esplosioni sono promiscue, e coinvolgono anche i soft targets, porteranno sicuramente a scoprire nuove zone di vulnerabilità. Il nichilismo, se sistematico, funziona sempre”. Su questo non c’è esitazione, sui risultati storici, l’analisi andrebbe ampliata e rivista. Milt Bearden la riassume in “due amare lezioni che non bisogna dimenticare: prima di tutto nessuna nazione che ha lanciato un’offensiva contro una nazione sovrana ha mai vinto; in secondo luogo, ogni rivolta basata sul nazionalismo contro un’occupazione straniera ha sempre la meglio”. Ci sono molte altre implicazioni da valutare perché poi bisogna vedere come “la forma segue la paura”, perché la Breve storia dell’autobomba rivela “una corsia privilegiata per implementare sistemi di sorveglianza orwelliani e usurpare le libertà civili dei cittadini” ed è, nell’insieme, una lettura (necessaria) che non lascia molta speranza per il genere umano.

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