martedì 23 agosto 2016

Bret Harte

Le Storie del West rappresentano una fetta di di “una civiltà che nel diciassettesimo secolo sarebbe stata chiamata eroica, e già nel diciannovesimo era diventata semplicemente spericolata”. La definizione è caratteristica dello stile irriverente di Bret Harte che conosce a fondo ed è molto abile nel destreggiarsi nella terra di nessuno tra la leggenda e la realtà. Nelle Storie del West non manca di evidenziare storture o deviazioni o persino luoghi comuni come i duellanti pronti a “spararsi a vista”, ma tocca e collega tra loro molti elementi conflittuali: lo sfruttamento del territorio (e degli esseri umani), la dissoluzione di intere fortune nell’oppio, nel gioco d’azzardo, nella prostituzione, e infine il rapporto incompiuto con la wilderness e con l’imprevedibilità degli elementi (le alluvioni, le eruzioni, i terremoti) che sottolineano i passaggi e le svolte più importanti dei racconti. Non di meno, le Storie del West partono e si concludono attorno ai personaggi e ai loro nomi. La strana anagrafe, dovuta al fatto che “il vero nome di un uomo, a quei tempi, si basava solamente sulla propria dichiarazione non confermata”, fornisce già una catena di suggestioni che definisce La fortuna di Roaring Camp. In un’enclave nell’impervio West, con una popolazione tutta maschile, non educatissima, l’unica donna muore partorendo un bimbo che diventa così l’oggetto di attenzioni goffe e generose. Il racconto procede spedito, Bret Harte ha il senso dell’ironia, data la situazione, ma mantiene la barra in perfetto equilibrio in una cornice originale e complessa che ha per protagonisti proprio quegli “uomini si erano improvvisamente risvegliati alla bellezza e all’importanza di queste piccole cose, che avevano così a lungo calpestato senza cura. Una scaglia di mica luccicante, un frammento di quarzo screziato, un ciottolo brillante presi dal letto del ruscello, e quindi ripuliti e tonificati, si dimostravano ora belli ai loro occhi e venivano così invariabilmente messi da parte”. Il carattere circoscritto di Roaring Camp (con un finale tutto da scoprire) così come, più avanti, della cittadina di Sandy Bar svela quel senso di ambiguità che attraversa le frontiere del West perché “in certe comunità, le azioni buone e cattive sono contagiose”. Ecco allora apparire ai viandanti, dentro gli ostacoli insuperabili dell’oscurità e della pioggia battente, la figura di Miggles, che vive con gli orsi, ma la cui nobile ospitalità riscatta un passato turbolento. Contrasti ancora più evidenti in L’Iliade di Sandy Bar, una faida epocale, in parte ispirata alla vera diatriba tra con Mark Twain, che di Bret Harte diceva: “E’ un bugiardo, ladro, truffatore, snob, ubriacone, scroccone, bugiardo”. I racconti hanno una loro leggerezza e L’Iliade di Sandy Bar è rappresentativa perché Bret Harte non lesina particolari nella contesa tra le figure di York e Scott. Come dice il colonnello Starbottle era “una faccenda che dei gentiluomini avrebbero potuto risolvere in dieci minuti davanti a un bicchiere, se volevano parlare d’affari; o in dieci secondi con un revolver, se volevano divertirsi”. Le Storie del West sono fatte proprio così, compresa La leggenda del monte del Diablo, che incrocia missioni spirituali e i incontri mefistofelici o i Giorni di bohéme a San Francisco, dove la corsa all’oro e la trasformazione di una città vengono raccontate con un formato “conciso e stringato, e al contempo evocativo”, ma anche “deliziosamente stravagante o un miracolo di semplicità” proprio come Bret Harte ha voluto queste Storie del West.

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