domenica 21 agosto 2016

Allen Ginsberg

I Primi blues nascono con l’intenzione di interpretare e trasformare le “canzoni dell’innocenza” di William Blake: un desiderio che Allen Ginsberg matura raccogliendo la sfida della lingua “spontanea” di Jack Kerouac, dell’irruenza di Gregory Corso e delle “catene di immagini lampeggianti” di Dylan, più di tutti. Il processo è più empirico che poetico e nei Primi blues confluiscono quei rag, quei mantra e quelle ballate dove le parole, non meno della musica, nascono sull’onda dell’improvvisazione, un po’ flusso di coscienza, un po’ cronaca impressionistica di quella che, in contemporanea, Allen Ginsberg chiamerà La caduta dell’America. Prima di essere raccolti in un libro, i Primi blues vengono assemblati nel corso di alcune session prodotte da Jack Douglas a New York nell’autunno 1971, con Allen Ginsberg coadiuvato da un variopinto gruppo di “amici”. L’intento è dichiarato: “La musica porta a emettere vocali senza senso, che si potrebbero correggere ma, per rimanere fedele allo spirito di questa arte, ho preferito lasciare la maggior parte degli abbozzi e delle improvvisazioni nella loro dicitura originale, il che è utile a me e agli altri per vedere come canta effettivamente la mente inesperta”. Se William Blake è la fonte principale a cui attingere, il modello di riferimento, il capostipite dei sognatori e dei visionari, le altre sfumature sono garantite da un’ampia gamma, colorita e cosmopolita, di voci, dai bardi irlandesi e scozzesi ai bluesman americani. Anche se i Primi blues sono dedicati a Dylan, in virtù di un’attrazione a tutto tondo, l’ispirazione è frutto della libertà d’espressione, condivisa con Phil Ochs, Happy Traum, Harry Smith, David Amram che potrebbero essere radunati in Mc Dougal Street Blues, a celebrare una delle strade fondamentali e uno dei luoghi dove Allen Ginsberg può dire: “le chitarre suonano tutto intorno. So fare solo tre accordi, posso cantare la mia vita sotterranea”. E’ quella che coincide con il tormento di quegli anni: i Primi blues arrivano quando la lunghissima stagione della Beat Generation sta vivendo un intenso e movimentato crepuscolo. L’elegia, a modo suo, è esplicita nei confronti di Neal Cassady e Jack Kerouac, ed è quasi un epitaffio nei versi conclusivi di Molti amori: “Molti amori sono sottoterra, molti amori non fanno più rumore, molti amori sono andati in cielo, molti amori hanno detto addio”. Allen Ginsberg riporta con naturalezza la poesia dentro l’alveo primordiale della musica e senza timori nel maneggiare il linguaggio, le parole, la storia stessa e per un’ironica legge del contrappasso di quell’America che ormai ha un sapore “metallico”e in un “oceano azzurro” che dovrebbe rappresentare il paradiso, “passano i nostri bombardieri”. Sono i momenti lancinanti in cui la guerra del Vietnam sembra non finire più e se Allen Ginsberg ancora non si sottrae all’esortazione (“Abbiamo bisogno di inginocchiarci e di seminare con la mano la terra su cui stiamo, la terra che abbiamo bombardato”), d’altro canto si chiede “cosa fa il pubblico se non bere birra in lattina”. Domanda retorica, perché recepiva l’onda lunga della disillusione, della sconfitta, della malinconia che avrebbe inondato e pervaso l’America, e non solo. E’ evidente che da William Blake, Allen Ginsberg ha tratto il carattere profetico delle “canzoni”, e l’annunciazione alla gioventù cosmopolita di New York, datata 20 dicembre 1971, finisce con un presagio perché dice: “Questo secolo finirà in zolfo o con le vostre tenere lacrime”. Non si sbagliava.

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