martedì 26 luglio 2016

Joan Didion

E’ come se L’anno del pensiero magico si fosse allungato a dismisura, dando forma compiuta alle impercettibili variazioni delle Blue Nights, quando, secondo Joan Didion, diventano evidenti “la fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza”. Se, nella sostanza, si tratta di un memoriale dedicato alla figlia Quintana Roo, a tutti gli effetti Joan Didion usa l’introspezione per ricollocare il dolore (immane) e quei ricordi che “sono tutto ciò che non vuoi più ricordare”. Il paradosso è alla fonte nella frattura delle Blue Nights nel momento in cui, dice Joan Didion, “qualcosa che ha alterato la prospettiva delle mie possibilità, ha ristretto, per così dire, l’orizzonte”. La confessione è sempre esplicita e l’unico palliativo è lo stile irreprensibile. La rivelazione di particolari (autobiografici) intimi, anche molto vividi e laceranti, ancora carichi di interrogativi (nello specifico, tutto quello che riguarda l’adozione di Quintana Roo) non sorprende per l’accuratezza e la minuziosa elaborazione di Joan Didion che misura parola per parola, spesso ripetendosi, per essere certa di trasmettere una ricostruzione efficiente. Stupisce l’immediatezza e la lucidità con cui momenti delicati e appartenenti a una sfera riservatissima delle emozioni nelle Blue Nights si associano con naturalezza a fatti di cronaca e/o storici (la guerra in Vietnam o l’invasione di Panama, tra gli altri) che filtrano per osmosi e si vanno a incastrare nel tessuto narrativo nel tentativo, lungimirante e ammirevole, di definire il mestiere indefinibile di madre, di padre, di genitore. Un ruolo molto privato, una funzione molto pubblica. La differenza generazionale, tra madre e figlia, è anche una frattura epocale su cui Joan Didion riflette a lungo: “C’era una guerra in corso. Quella guerra non ruotava intorno ai desideri dei figli, né dipendeva in alcun modo da essi. In cambio dell’accettazione di queste semplici verità, ai figli era concesso di inventarsi la propria vita. L’idea che potevano essere abbandonati a se stessi, che anzi fosse la cosa migliore per loro, non veniva messa in discussione”. I dettagli vengono usati come chiodi per fissare quegli istanti, “un periodo, un decennio, durante il quale tutto sembrava corrispondere”, così come schegge e frammenti che si perdono perché “il tempo passa. Il ricordo sbiadisce, il ricordo si adatta, il ricordo si adegua a ciò che pensiamo di ricordare”. Joan Didion non si sofferma mai né alle mutevoli ragioni della memoria né al bisogno di consolazione ed è estrema nel sottolineare le asperità della perdita, della mancanza, ma la tensione nella confessione delle Blue Nights è continua, inalterata, va oltre il lutto e la sua condivisione. Lo ribadisce, con grande coraggio: “Vi racconto questa storia vera solo per dimostrare che posso farlo. Che la mia fragilità non è ancora arrivata al punto di impedirmi di poter raccontare una storia vera”. La realtà delle Blue Nights ricorda che “quando perdiamo quel senso di possibilità, lo perdiamo in fretta. Un giorno siamo tutti presi a vestirci bene, a seguire le notizie, a tenerci al passo, a essere all’altezza, in sostanza a restare vivi; il giorno dopo non più”. L’inadeguatezza è fisiologica l’incongruenza inevitabile, visto che “per ogni cosa c’è una stagione”, dicono le sacre scritture, ma Joan Didion pensa ancora e prima di tutto a Turn, Turn, Turn dei Byrds, a non dimenticare che, a saldo di tutte le ferite, c’è quel sogno, magico, di volare via, anche nell’implacabile luce del crepuscolo.

domenica 24 luglio 2016

Jennifer Egan

L’indecisione che regna sovrana nell’incipit, una pagina di ripetute negazioni, una porta che non si apre, è già un’indicazione allarmante. Si capirà, più avanti, che lo stile titubante e, a tratti, scolastico che sottolinea La fortezza è dovuto a un particolarissimo narratore, i cui limiti sono espliciti e concreti. Tra l’altro, non è l’unica voce ad avere qualche problema con i fondamentali della scrittura, perché La fortezza si sviluppa su più piani e più tempi. Jennifer Egan non è nuova a soluzioni temerarie e a scomporre il flusso narrativo (con ottimi risultati come è stato per Il tempo è un bastardo) seguendo l’istinto essenziale dell’idea che “sei tu che inventi la storia, sei tu che la racconti, e a quel punto sei libero”. Tutto comincia quando Danny, un loser con la mania per la connessione, vola da New York verso un non meglio identificato villaggio mitteleuropeo dove La fortezza è stata acquistata da Howie alias Howard, un vecchio amico d’infanzia che ha l’idea di trasformarla in un resort rinascimentale, privo di contatti analogici e/o digitali, per riaccendere la fantasia. Tra lui e Danny c’è un antico e doloroso segreto che resta sospeso sopra La fortezza come un’inevitabile spada di Damocle. Il carattere kafkiano del soggetto viene svolto, almeno nel filone centrale, con una serie di colpi di scena, episodi e salti nel buio degni di Stephen King, dove la trama sembra riflettere la condizione di Danny, che “sapeva solo di vivere più o meno in un costante stato di attesa per qualcosa che da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, cambiasse tutto quanto, ribaltasse il mondo su se stesso e rimettesse in prospettiva la sua intera vita trasformandola in una storia di assoluto successo, perché ogni inghippo e avvitamento e intoppo e casino non aveva fatto altro che condurre a quello”. Inoltrandosi nel romanzo, si scopre che per La fortezza, Jennifer Egan ha architettato un meccanismo che funziona come una reazione a catena con i diversi (e parecchi) strati del racconto che si innescano uno con l’altro. Se la scrittura resta solida è perché Jennifer Egan supera i suoi alter ego, ma la natura della trama non va oltre un assemblaggio, particolarmente ardito. Si capisce l’ipotesi di superare una narrativa che è frutto dell’idea di “catturare fantasmi”, agendo sulla forma, sulle immagini, sulle dimensioni parallele solo che spesso è piuttosto la confusione a risaltare. Nel corso della storia, quella che a volte pare soltanto un traccia, poi diventa l’elemento decisivo, poi viene dimenticato. I passaggi dall’incoscienza alla realtà, dal racconto dentro il racconto, da un tempo all’altro, si intersecano con un uso disinvolto (forse fin troppo) della prima e della terza persona, a volte persino una dentro l’altra. Tirando le somme, nell’arco del romanzo ci sono (almeno) due narratori che non lo sanno fare e una scrittrice, Jennifer Egan, che lo so sa fare benissimo, ma che fingendosi uno e poi l’altro, alla fine sembra esserne assorbita. La storia zoppica come Danny, la coerenza svanisce insieme a personaggi impalpabili, l’intenzione va a corrente alternata come gli umori di Howie, il finale arriva frettoloso e La fortezza resta rigida custode di un’idea tanto ingegnosa quanto irrisolta.

giovedì 21 luglio 2016

Jenny Offill

Nell’incipit di Le cose che restano Jenny Offill traduce subito “una parola in codice per cielo blu”, proprio come Joan Didion definiva quel momento in cui “il crepuscolo diventa azzurro” e le Blue Nights preannunciano “un cambiamento di stagione, non proprio un clima più caldo, niente affatto, eppure all’improvviso l’estate sembra vicina, una possibilità, o meglio una promessa”. Il senso di quell’istante è tutto nel colore e le differenti tonalità sono l’essenza dello scorrere di Le cose che restano, che pare diviso in tre fasi. La prima parte è proprio dell’intensità delle “blue nights”. Il cielo indaco, sereno, immerso nella luce nasconde qualcosa di indefinito nell’aria e l’intuizione di una speranza disattesa si trasforma in una premonizione. Per comprendere Le cose che restano serve la conoscenza di tutta una geologia dei sentimenti, che risale alla lingua segreta parlata dal nonno (l’annic, che avrà un ruolo non secondario) e Jenny Offill ha una sua delicatezza nell’incontrare e nel presentare di la famiglia Davitt (Anna, la madre e Jonathan, il padre) disegnando una dimensione incantata, con lo stupore di Grace, la figlia. E’ sua la voce che traccia le distanze rispetto al mondo complicato e confuso degli adulti con i loro riti e le loro stravaganze. Gli sbalzi d’umore di entrambi i genitori, la precarietà di una condizione tra la razionalità di Jonathan e l’eccentricità di Anna con l’aggiunta delle oscillazioni di Edgar, il suo baby sitter, cui sogno è illuminare la città con una muffa fosforescente sono gli ingredienti che determinano l’evoluzione della specie e l’involuzione dei legami. Visti dagli occhi di Grace e data la propensione scientifica dei personaggi viene spontaneo a pensare a quello che scriveva Charles Darwin nella Ricapitolazione e conclusione, ovvero come “a prima vista niente può sembrare più difficile che il credere che i complessi organi e istinti si siano perfezionati non con mezzi superiori, sebbene analoghi, alla ragione umana, ma per l’accumulazione di innumerevoli lievi variazioni, ciascuna utile al loro possessore individuale”. La metamorfosi della storia si compie anche nei toni che, nella seconda nuance, pur non essendo molto differente dalla prima diventano più marcati, come se fosse pervasa da riflessi elettrici. Le parti combaciano e il brio iniziale quasi comico si trasforma, anche se Le cose che restano mantiene una sua fluidità e una sua identità che resta inalterata anche quando, dalla metà in poi il ritmo diventa convulso. Grace è prigioniera (come è inevitabile) delle proiezioni e delle variazioni d’umore della madre e la vena di follia di Anna si rivela contagiosa. Le stravaganze diventano sempre più bizzarre, Grace fugge con lei dal Vermont a New Orleans fino al deserto californiano, dove il miraggio si spezza. Le cose che restano passano dalla presenza, alla partenza e, arrivate allo stadio terminale dell’assenza, la variazione dominante sfuma nel blues, in tutti i sensi. Bisogna ammettere che, con Le cose che restano, Jenny Offill ha molta più dimestichezza con i contorni indefiniti, quando tutte le possibilità sono ancora all’orizzonte, magari nascoste in un alone di mistero o circondate da un’aura impalpabile. E’ molto più brava a nascondere, che a svelare. Quando le differenze si manifestano e diventano solchi e confini invalicabili e il ritmo diventa più convulso, Jenny Offill, che è molto vicina al cuore dei suoi personaggi, pare perdere il controllo con loro e la verità è che Le cose che restano sono comunque quelle allineate nella prima fase del romanzo, dove l’attrito tra il mondo degli adulti e la meraviglia di Grace provoca scintille, magie, colori da immaginare.

venerdì 15 luglio 2016

Henry Miller

Una città torbida, fremente, maudit, uno dei luoghi d’elezione di ascendenti e discendenti della Beat Generation, quella Parigi fatta di sesso, vino, poesia, cibo, musica, proprio in questo ordine. Le esigenze sono elementari, gli sviluppi rudimentali e i metodi pure perché, come ricorda Henry Miller, “era un periodo in cui l’aria stessa sapeva di lotta”, e I giorni tranquilli di Clichy tanto tranquilli non erano. Henry Miller sta lavorando a Primavera nera, mentre il suo alias, Joey, e l’amico Carlo, si contendono le ragazze, Colette e Nys e tutte le altre, con lo scopo di “innamorarsi della felicità! Diventare inutile il più possibile! Avere la coscienza dura come la pelle dei coccodrilli!”. Oltre alle peripezie gastronomiche ed erotiche, ai vagabondaggi notturni e alla dissoluta condotta bohémienne, Henry Miller vive la giornata con la scrittura in testa, distinguendo toni di voce, isolando spezzoni di dialoghi, episodi e aneddoti dato che “per un artista le brutte situazioni sono fertili come quelle felici, e qualche volta anche di più. Per un artista ogni esperienza è fruttuosa, suscettibile di convertirsi in un credito”. L’illusione è tale che Henry Miller ammette di essere “affondato fino a quel livello pericoloso in cui, per pura beatitudine e per lo stupore, uno ritorna alla condizione di gemma”. Passate le sbornie, ricuciti i cuori spezzati, lasciate le femme fatale, la ragion di stato dello scrittore impone una riflessione che Henry Miller non tarda a illustrare: “Vediamo un po’... A che cosa pensavo? Ma non mi riuscì di pensare, di farmi venire in mente un bel niente. Mi sentivo troppo mirabilmente felice. Perché pensare, del resto? Sì, era una grande giornata. Erano state parecchie, anzi. Sì, soltanto pochi giorni prima ce ne stavamo seduti lì domandandoci dove saremmo potuti andare. Poteva essere stato ieri, oppure un anno prima. Che differenza faceva? Uno si gonfia, poi si affloscia. Anche il tempo si affloscia. Si afflosciano le puttane. Tutto si affloscia. Si affloscia nella sifilide”. La conseguenza è, inevitabile, un’altra partenza: “Ma sì, andiamocene lontano, molto lontano; senza libri, senza macchina per scrivere, senza niente. Non dir niente, non far niente. Lasciarsi portare dalla marea”. L’oceano lo ritroverà (anni dopo) mentre riscriveva I tranquilli giorni a Clichy, ormai stabilitosi a Big Sur: “Che differenza ci sarebbe stata a vedere Parigi dalla cima di un omnibus a cavalli all’età di ventun anni! Oppure contemplare i grands boulevards come un flâneur nel periodo reso famoso dagli impressionisti”. All’epoca dei giorni felici a Clichy, le ambizioni era ben diverse, e molto più limitate: “Senti, torniamo a Parigi e prendiamoci una bella dose di sifilide”, quest’ultima riconosciuta, evidentemente, come malattia professionale. Già in Paradiso perduto offriva un’altra panoramica della sua belle époque parigina e I giorni tranquilli a Clichy sarebbero diventati i “giorni febbrili” poi sfumati tra amarezza, nostalgia e il brutale azzeramento delle gioie e delle fantasie imposto dalla seconda guerra mondiale. A distanza e in prospettiva I giorni tranquilli a Clichy restano sono una scheggia incendiaria e selvaggia di vita in stato di abbandono eppure non priva di una precisa consapevolezza: “Mi ero avvalso di tutte le mie risorse per esprimermi in modo corretto ed eloquente. E mi parve di aver colpito nel segno”. Adieu, Parigi: finiva un’era, lo aspettava L’incubo ad aria condizionata.

lunedì 11 luglio 2016

Patti Smith

Per Patti Smith, il volto della maturità è un’esistenza frugale dedicata all’arte, alla cultura, alla contemplazione, ai viaggi, tutti strumenti utili a definire “l’amalgama di un sogno”, una forma accarezzata spesso e altrove definita Dream Of Life. Lo stesso M Train è un treno immaginario, che Patti Smith scopre nel dormiveglia, una twilight zone dove si tende a ricostruire la realtà seguendo vie misteriose. Da lì, le dinamiche del memoir, con cui Patti Smith ha scoperto la vocazione di narratrice in Just Kids, vengono aggiornate con maggior coraggio e il tragitto dell’M Train porta più lontano. Se allora la figura maschile centrale era rappresentata da Robert Mapplethorpe, qui viene richiamata invece quella di Fred Sonic Smith. La ricostruzione del matrimonio, forse proprio la riscrittura in sé, è accorata ed elegiaca, e le correzioni e le omissioni autobiografiche sono comprensibili, anche dove Patti Smith ammette che “con il tempo spesso finiamo per identificarci con chi in passato in passato non riuscivamo a capire”. Da quello che viene riportato in M Train, l’intesa con Fred Sonic Smith era funzionale a un equilibrio contraddittorio, fondato su un’idea tradizionale della famiglia che si scontrava con le velleità artistiche e i colpi di testa di entrambi. Come l’acquisto di uno yacht pieno di falle o il pellegrinaggio ai Caraibi sui passi di Jean Genet, la cui figura apre e in qualche modo chiude l’eccentrico percorso dell’M Train. Il primo elemento indiscutibile è che, pur composto in un piccolo caffè, seguendo una routine immutabile e una dieta dimessa, M Train è in realtà un diario di viaggio, in un certo senso anche di una fuga, se come dice Patti Smith, “è proprio vero: a volte nascondiamo i nostri sogni dietro alla realtà”. Di treni, aerei e autobus Patti Smith ne prende parecchi verso Città del Messico, Tokyo, Berlino, Londra e Tangeri, l’approdo finale dove, nell’incontro con Paul Bowles, M Train si svela nell’essenza di un omaggio alla Beat Generation, almeno quanto all’inizio lo era per Sam Shepard. I due punti di riferimento affiorano sulla superficie dei pensieri e delle note di Patti Smith in modi diversi (impossibile non identificare Sam Shepard nell’onirico “mandriano” che la segue ovunque) e comunque indispensabili ad alimentarne intenzioni & propositi: “Ho perlustrato le nicchie di gioie passate, fermandomi a un momento di esaltazione segreta. Ci sarebbe voluto del tempo, ma sapevo come fare”. La lettura, più di tutto: l’elenco delle ossessioni letterarie comprende Haruki Murakami e Roberto Bolaño, Mohammed Mrabet e Sylvia Plath e una sequenza di riflessioni disposte sui suoi taccuini la portano a considerare che “lo scrittore è un direttore d’orchestra”. Nel suo M Train, Patti Smith ha il vizio di dimenticare tutto e di ricordare così bene, seguendo soltanto l'ispirazione, senza subordinate: “Volevo solo perdermi, diventare tutt’uno con qualche altro luogo, infilare una ghirlanda sulla cima di un campanile solo perché mi andava di farlo”. Allo stesso modo, alla fine torna a casa, che vuol dire NYC, a ritrovare i piccoli riti. La saggezza di Patti Smith è quella di essere rimasta insaziabile, curiosa, irrazionale tanto da comprare un rudere a Rockaway Beach appena prima dell’uragano Sandy solo perché “vogliamo cose che non possiamo avere. Cerchiamo di recuperare un particolare momento, suono, sensazione”. Quando non rimane nulla, ed è ora di rimettersi in piedi, viene anche il momento in cui “il sogno deve cedere il passo alla vita” ed è anche noia, ozio, distrazione (“Una serie televisiva ha una sua realtà morale) eppure persino nel suo placido tran tran casalingo M Train riesce a trasmettere l’inconfondibile spirito dell’artista, perché “la metamorfosi del cuore è una cosa meravigliosa, a prescindere da come arrivi”. Con gli occhi aperti, con gli occhi chiusi.

venerdì 8 luglio 2016

Mike Davis

L’incubo che si materializza leggendo Il pianeta degli slum è un’ombra apocalittica sulla civiltà così come la conosciamo e sale proprio da quei luoghi in cui l’umanità nei secoli si è data regole, connotati, ruoli, forme di convivenza. Il pianeta degli slum è un’inchiesta su quelle che Mike Davis definisce “patologie della forma urbana”, ovvero le deformazioni delle metropoli nella loro essenza, da polis a ghetto, da centro a periferia, dove “il lento incrostarsi delle baraccopoli sul guscio della città è stato punteggiato da tempeste di miseria e scoppi improvvisi di edificazioni di slum”. Le città, esplose nella dimensione, nella popolazione, nelle forme e implose nella contrazione dei diritti, dei servizi e delle tutele si sono spezzate lungo la linea del fronte tra ricchezza e povertà, hanno attratto e nello stesso tempo respinto moltitudini, trasformando il miraggio del benessere in una trappola perché, come scrive Mike Davis, “la segregazione urbana non è uno status quo congelato quanto un’incessante guerra sociale in cui lo stato interviene regolarmente in nome del progresso, dell’abbellimento e perfino della giustizia sociale per i poveri per ridisegnare i confini spaziali a favore della proprietà immobiliare, degli investitori stranieri, dell’élite di proprietari di case e dei pendolari delle classi medie”. E’ un quadro che allarma e disturba nelle previsioni di Mike Davis che, mettendo in prospettiva l’analisi strutturale di dati demografici e architettonici e lo storytelling per descrivere le condizioni disumane che circoscrivono, dimostra come “la rapida crescita urbana in un contesto di aggiustamenti strutturali, svalutazione monetaria e tagli statali è stata inevitabilmente una ricetta per la produzione di massa degli slum”. Nella pericolosa intersezione tra industrie, sfruttamento, disastri e miseria “tutti i principi classici della progettazione urbana, compresa la conservazione dello spazio aperto e la separazione degli usi nocivi dei terreni dalle residenze, nelle città povere vengono capovolti. Sembra che una sorta di infernale ordinanza di zonizzazione imponga di circondare le attività industriali pericolose e le infrastrutture di trasporto con folte aggregazioni di baracche”. Un caos che si è pianificato da solo e, se nell’accumulo del disordine non è facile individuare delle possibili linee di sviluppo, Mike Davis prova a descrivere evitando riduzioni semplicistiche, non di meno sottolineando quella che è, a tutti gli effetti, una visione distopica: “Le città del futuro, lungi dall’essere fatte di vetro e acciaio secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero. Al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, gran parte del mondo urbano del ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo. Anzi, il miliardo di cittadini che abitano gli slum postmoderni guarderà molto probabilmente con invidia le rovine delle solide case di fango di Catal Hayuk in Anatolia, erette all’alba della vita urbana, ottomila ciaio anni fa”. Bisogna solo aggiungere che, come sempre, la letteratura più coraggiosa Il pianeta degli slum l’aveva scoperto anni e anni fa, nel 1982, quando Don DeLillo scriveva in I nomi: “Crescendo, la città avrebbe consumato l’amara storia finché non sarebbe rimasto null'altro che strade grigie, palazzi a sei piani con la biancheria che ondeggiava al vento sui tetti. Poi mi resi conto che la città stessa era inventata da gente che aveva perduto i propri luoghi, gente costretta a ristabilirsi altrove, per sfuggire alla guerra, al massacro e agli altri, affamata, in cerca di lavoro”. Una lettura scomoda, ma necessaria.

martedì 5 luglio 2016

Elizabeth Strout

Costretta a letto dalle complicazioni di un’appendicite, Lucy Barton vede arrivare la madre al suo capezzale e con lei comincia un dialogo imprevisto e imprevedibile. La forzata immobilità è un’occasione unica perché, come nota Lucy Barton, “forse era il buio appena rotto dalla crepa pallida di luce che filtrava dalla porta, forse la costellazione del formidabile grattacielo Chrysler davanti a noi, a permetterci di parlare come non avevamo mai fatto”. Sono parecchie, le distanze, accumulate nel corso degli anni, e la prima è proprio in quello scintillio notturno perché tra New York dove, c’è più gente che cielo, e Amgash, Illinois i ricordi che riemergono sono poveri, affamati, freddi, “white trash”. E’ un retaggio da cui non ci si può liberare, è qualcosa di inciso nell’anima e la stoica presenza della madre è lì a ribadirlo, per naturale istinto, insieme all’inestricabile legame con la figlia. Lei è fuggita grazie alla redenzione della lettura e degli studi (“I libri mi davano qualcosa. E’ questo quello che penso. Mi facevano sentire meno sola. E’ quello che penso”) eppure quel passato è ancora lì e abbandonarlo, secondo Lucy Barton, “deve essere il sistema che adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo, infestati da ricordi che non possono assolutamente essere veri. Eppure, quando vedo gli altri incedere sicuri per la strada, come se non conoscessero per niente la paura, mi accorgo che non so cos’hanno dentro. La vita sembra spesso fatta di ipotesi”. E’ anche l’infanzia che non se ne vuole andare. La madre la chiama Bestiolina, il marito la chiama Passerotto perché Lucy Barton tende a richiamare protezione, ma è anche votata a una sua indipendenza, solo che “ci sono fattori che influiscono sulle strade che prendiamo ed è raro che sappiamo individuarli e registrarli con precisione”. Cercando quell’impossibile definizione, Elizabeth Strout più che un romanzo (breve) si concentra su quello che per le sue caratteristiche è un copione teatrale, un atto unico, con pochi interpreti e uno scenario limitato al minimo indispensabile. Madre e figlia restano separate in un equilibrio precario e rimarcato da personaggi secondari, prima il dottore, nel presente della narrazione, e poi soprattutto Sarah Payne, docente di scrittura creativa. Entrambi sono determinanti a fissare gli intervalli del confronto tra madre e figlia, in più Sarah Payne, una scrittrice insofferente la cui identità sembra il sovrapporsi dei profili di Joyce Carol Oates, Grace Paley e Joan Didion, definisce così il tema di Lucy Barton: “E’ la storia di uomo che si è tormentato ogni giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra. E’ la storia di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte le mogli di quella generazione, e che si presenta nella stanza d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta facendo. E’ la storia di una madre che ama sua figlia. In modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto”. La ricostruzione non è comunque consolatoria: anche se entrambe sono coscienti che “si perde soltanto tempo a soffrire due volte”, la tensione è garantita dall’accumularsi di tensioni, attriti e speculazioni che vengono arrotondati dall’attenzione a ogni singola parola e sembra quasi che Elizabeth Strout con metodo e scrupolo il consiglio di Sarah Payne: “Ciascuno di voi ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mia a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola”. Ogni pagina è ricavata per sottrazione, levigando le frasi, persino risparmiando sui personaggi, che appaiono e svaniscono in fretta, compresi quelli vicinissimi a Lucy Barton. Nella luce, al centro, resta il confronto tra madre e figlia e la trama rimane tanto elegante quanto esile. Del resto la sua bellezza è tutta lì, come l’ammissione finale di Lucy Barton ammette senza dubbi: “La vita mi lascia sempre senza fiato”. Si sente, si percepisce, si capisce, nessuna sorpresa.

domenica 3 luglio 2016

Sam Shepard

L’inquadratura iniziale di Pazzo d’amore riassume già gran parte della narrativa di Sam Shepard: “Una squallida stanza di un motel di terza categoria al limite del deserto Mojave. Le pareti sono di un verde sbiadito. Il pavimento è di linoleum marrone scuro. Non ci sono tappeti. Il letto di ferro battuto a quattro pomi, a una piazza, è leggermente decentrato sulla parte destra del palcoscenico e parallelo rispetto al pubblico”. Un punto di partenza proprio in mezzo al nulla, in realtà una sorta di capolinea, tanto per cominciare. Eddie ha fatto una deviazione di duemilaquattrocentottanta miglia (“Duemilaquattrocentottanta”) per andare a trovare May e lo sforzo di un viaggio tanto lungo e impegnativo è accolto così: “Non puoi venire a fare questo casino ogni volta. Lo fai da troppo tempo, io non ce la faccio più. Mi sento male ogni volta che arrivi e poi sto male quando te ne vai. Sei una malattia. E poi non hai nessuno diritto di essere geloso dopo tutta la merda che mi hai fatto ingoiare”. Le scintille tra May, Eddie e Martin e un po’ più in là, il vecchio, sono compresse in una trama che è un condensato e un compendio della drammaturgia di Sam Shepard, anche nella forma e nello stile. Il linguaggio è aspro, immediato, spietato perché oltre al groviglio dei legami, non c’è alternativa. Fuori resta il deserto, eppure è sempre l’opzione migliore: “Chissà quante cose ho dimenticato. Per fortuna che a un certo punto me ne sono andato. E’ stata la mossa migliore che potessi fare”. Focalizzato su rapporti che non sono mai semplici, mai lineari, mai risolti, Pazzo d’amore è necessario perché a modo suo racchiude tutti gli elementi fondamentali dei copioni di Sam Shepard. Il tema è coerente con altre battaglie tra uomini e donne, il più delle volte concluse da sconfitte brucianti, e Pazzo d’amore riporta un segmento significativo quando, infine, tocca proprio a May completare il quadro: “Non credere di cavartela così. Hai rigirato questa storia come ti pareva, Eddie. L’hai completamente stravolta. Adesso non sai più qual è il capo e qual è la coda. Okay, okay. Non ho bisogno di nessuno di voi. Non ho bisogno di niente tanto già lo so come va a finire questa storia. Lo so perfettamente come va a finire. So esattamente come sono andate le cose, senza dover aggiungere colpi di scena”. Rimane l’eco di una voce, quasi fuoci campo, ed è il vecchio che chiede: “Tu inventi i sogni, non è così?”, ma la risposta rimane comunque ambigua, un po’ dentro e un po’ fuori, perché “una bugia è quando tu credi che quella sia la verità. Ma se già sai che quella è una bugia allora non è una vera bugia”. Scorticato nell’essenzialità della sua cornice, circoscritto da Merle Haggard che canta Wake Up dall’album The Way I Am e poi I’m The One Who Loves You alla fine, Pazzo d’amore ribadisce soprattutto il ritmo tambureggiante, sincopato, serrato, battuta sopra battuta, con le frasi si incastrano una nell’altra. Una volta immerisi nel groove, leggere Sam Shepard è come guidare nella notte con gli abbaglianti. Il centro è illuminato quel tanto che basta da credere di essere nella direzione giusta. Tutto intorno, c’è soltanto l’oscurità.