giovedì 9 giugno 2016

Stephen Witt

Crisi? Quale crisi? Pirateria? Quale pirateria? Sembra che Stephen Witt stia dicendo: è successo qualcosa di epocale nell’industria discografica negli ultimi vent’anni (sì, è così), ma cosa? Free indaga con parecchi suggerimenti, tantissimi riscontri, un’idea tutto sommato coerente del giornalismo d’inchiesta e un ottimo piglio narrativo, che non guasta. Dall’inizio alla fine, la trama è annodata alla vita, alla morte e alla resurrezione dell’ mp3, raccontata in tutti i suoi particolari da Stephen Witt, come se Free fosse La stella di Ratner di Don DeLillo. E’ giusto, ma è come trovarsi in un labirinto di sensi unici e di domande paradossali. Valido per un romanzo, nella realtà abbastanza ambiguo: l’architettura di Free è elegante, colta, scorrevole, ma traballante a dir poco. Perché multinazionali che producono prodotti fisici finanziavano la ricerca di formati digitali compressi? Perché l’industria discografica è passata dall’euforia del compact disc all’attuale diffusa malinconia con un genocidio di posti di lavoro, ma lasciando inalterati gli stipendi (milionari) dei manager? Per dare una risposta a quest’ultima domanda, Stephen Witt segue la figura emblematica di Doug Morris, executive che nel corso della lunghissima carriera è stato sempre (ed è) al timone principale, una parabola rappresentativa di alcuni vizi capitali dell’industria discografica. Nel farlo, distribuisce un po’ di aneddoti, un po’ di notizie, fa un gran lavoro di ricerca, ma quello che c’è di interessante, oltre alla pirateria, lo lascia a livello di allusione. Per esempio, cita il procuratore di New York Elliot Spitzer che ha costretto al patteggiamento extragiudiziale le principali etichette discografiche perché sono state responsabili di aver corrotto le stazioni radiofoniche (che novità, la payola). Ancora di più si scopre che è stata prassi assumere interi call center per bombardare di telefonate le emittenti televisive per far trasmettere questo o quel brano. Per non parlare di spropositati budget per il marketing e la promozione, tutto magari per dischi inutili come quello di Lindsay Lohan, comunque votati al fallimento (artistico e commerciale). Lì si vede che la pirateria è soltanto un placebo alla miopia (eufemismo) dell’industria discografica nei confronti del digitale prima, e della rete poi. All’avvento del compact disc, tutto quello che i discografici sono stati capaci di fare è stato prendere un catalogo e rivenderlo, e sono stati anni d’oro. Con la rete, per loro stessa ammissione, non hanno mai saputo come fare. Per dire, il massimo del successo ottenuto in questo senso da Doug Morris è stato Vevo, un canale che in sostanza è il vecchio catalogo di videoclip reso disponibile per vie digitali. Stesso meccanismo del compact disc, fantasia al comando, sotto lo zero. Altri sono stati più rapidi e scaltri, primo tra tutti Steve Jobs, uno che ha capito a fondo i meccanismi del pop e infatti prima con gli mp3 nell’iPod, poi nell’iTunes ha fatto saltare il banco. Non a caso, se si vuole prendere una data per ricordare un punto di non ritorno è stato quando gli U2 hanno regalato l'irrilevante Songs Of Innocence a mezzo miliardo di persone completando de facto la metamorfosi della musica, che infine è diventata il gadget di lusso dell’hardware e del software. Questo è il dettaglio vitale e mortale che sfugge a Stephen Witt, e per giunta con un libro chiamato Free. Altro che pirateria. E’ il mercato in tutto il suo splendore, decadenza compresa.

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