giovedì 30 giugno 2016

Charles Willeford

Per una volta lontano dalla serie dedicata al suo personaggio preferito, Hoke Moseley, con La macchina in Corsia Undici, Charles Willeford sembra conoscere, e in parte condividere, le riflessioni di Schopenauer sulla follia e sulla memoria, ovvero l’idea che la prima si manifesti come nemesi della seconda. Il protagonista di questo breve racconto, apparso per la prima volta su Playboy nel 1961, è il primo a comprenderlo quando dice: “La questione non è il dolore, è che non voglio perdere la memoria. I miei ricordi non saranno un granché, ma non mi rimane altro, e li voglio, li voglio tutti”. E’ quello che rimane a Jake Blake, nome fin troppo evocativo per un regista con qualche problema di attinenza alla realtà. Ha nutrito e coccolato la depressione e una pietra dopo l’altra si è circondato di un muro impenetrabile. Coadiuvato dall’alcol, ormai bollito in modo irreversibile, Jake Blake tenta il suicidio con un rasoio malandato, ulteriore segno della sua sgangherata corsa verso nel vuoto. Quando si ritrova immerso nel candore di una clinica può soltanto credere che sia la sua salvezza, quando è la plastica dimostrazione che non c’è limite al peggio. Abituato a dirigere e a trastullarsi con le proprie titubanze nell’effimera dimensione del cinema e della televisione, Jake Blake è costretto a confrontarsi, ovvero a subire, una nuova routine fatta di farmaci, infermieri, corridoi, incubi e dall’alta tensione in fondo alla Corsia Undici. La violenza nella sua forma più abietta, quella istituzionalizzata e codificata, è l’anticamera verso La macchina in Corsia Undici e, in effetti, Blake si trova in un cul de sac o meglio, per restare negli ambiti delle patologie psicologiche, nella paradossale situazione da Comma 22: se non ammette di essere folle, e quindi di osservare le regole, la disciplina e gli inviti dell'istituzione (ovvero se non collabora), lo aspetta un trattamento più duro, ma se si convince e/o convince le istituzioni della sua follia, ogni cura è possibile, compresa la macchina della Corsia Undici, cioè l’elettroshock. Il ribaltamento dei ruoli, imprevisto e repentino, conferma l’identità deviante di Blake e la follia in sé dell’elettroshock e se un brevissimo racconto, quale è La macchina in Corsia Undici, non consente di trarre considerazioni definitive o soltanto una valutazione morale (è più folle il folle o il medico che gli prescrive l'elettroshock?) di sicuro suggerisce in poche dozzine di pagine un’atmosfera plumbea, l’odore della claustrofobia che si avvicina, e non poco, alla ricostruzione di Ken Kesey in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Con un taglio netto, nitido, preciso, essenziale nella forma ed incisivo nel ritmo, con pochi ed evidenti dettagli che bastano a creare un mondo credibile (se non proprio realistico), prerogativa, quest’ultima, di ogni grande scrittore. In aggiunta, nonostante il ridotto formato in cui è condensata La macchina in Corsia Undici, non manca la sentenza definitiva di Charles Willeford, peraltro emblematica: “Quello che ci resta, a fine partita, sono i ricordi, e la capacità di ridere della nostra follia, o della nostra stupidità”. Da non perdere.

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